Francesco Permunian, Gianni Celati, Umberto Piersanti e… Davide Bregola. Stilisticamente diversissimi, tutti autori inattuali. Etnografi di un mondo che si sta perdendo o che, meglio, rimane nascosto nella sua immobilità, ai margini dei riflettori che puntano sui grandi centri urbani, le autostrade, gli autogrill, i neon. Davide Bregola lo sa bene, come scrive nella nota alla fine della raccolta di racconti Nei luoghi ideali per la camporella (Avagliano, 2022): «L’obsolescenza, i temi poco frequentati alimentano in me la voglia di fare un racconto».
La scrittura di Bregola è colta ma non lontana dai contenuti che ha scelto di trattare; il linguaggio si muove per analogie, similitudini e metafore: «Se chiudiamo gli occhi possiamo sentire sterminate moltitudini di pioppeti dalla scorza bianca e liscia come la pelle dei bambini» o «Ha la maestà di un felino, quest’acqua corrente e, come i felini, è capace di invadere e distruggere. Sa essere clemente e omicida».
La descrizione dei personaggi, le ferramenta, il fiume, l’assolata monotonia delle giornate nelle piazzette, i colori predominanti (verde, grigio, marrone, nel mio immaginario), fanno di questi racconti una fotografia antimoderna di un luogo che si dimena nella modernità. Bregola riesce nella difficile operazione di non staccarsi da quei territori, neanche stilisticamente. In questo ricorda proprio Piersanti, con i suoi Olimpo (Avagliano, 2006) e L’uomo delle Cesane (Camunia, 1994), testi dotati di una scrittura consona, strappata alla terra stessa che racconta. Negli scritti di Bregola, allo stesso modo, il luogo si parla addosso.
Certo, la memoria gioca un ruolo importante, ma del tutto funzionale al paesaggio esistenziale che questo ritaglio di terra (intorno al Po) fa emergere. Dove sta andando l’uomo? Da dove è partito? Che se ne fa di una riva di un fiume, di un paesino dove tutti i negozi son chiusi almeno fino alle quattro di pomeriggio? C’è Damiano, per esempio, che ruba un libro del padre, un barbiere, sulle malattie dermatologiche. Damiano lo mostra agli amici e viene beccato dalla madre, prova a schivare gli schiaffi. Bregola tratteggia l’infanzia tra entusiasmo della scoperta, condivisione e punizione; sempre con nettezza. La triade fondamentale di chi ha passato i primi anni della sua vita senza cellulari (una fortuna che ho avuto anch’io; anzi, forse proprio la mia generazione ha chiuso questo periodo). Quando si cresce, poi, si beve, si cammina lungo l’argine, la «linea Maginot»: «di solito l’argine serve per allungare le strade. D’accordo le statali o le comunali, ma se vuoi prendertela comoda, seguendo il corso dell’acqua, l’argine fa al caso tuo. Questo modo di vagare si chiama flânerie». Passeggiare senza meta, sono i piedi, non la testa, che decidono.
Bregola ci racconta un mondo fatto di passi, braccia, ruspe, terreno arato, tegole ed erba che cresce spontaneamente lungo i corsi d’acqua. Ci parla di un mondo che vaga, proprio come i suoi personaggi, e forse anche lui; lontano dalle scadenze urbane, dalla crescita, dalle masse. «Io passavo giornate intere a guardare nei fossi perché nei fossi c’era tanta di quella roba da stare lì all’infinito». Con Nei luoghi adatti per la camporella, Davide Bregola – senza cadute stilistiche e senza particolari voli – scrive del fosso d’Italia con trasparenza e onestà; narra di ciò che spesso non si dice e sta lì, a crescere, a fiorire, a morire.