Dopo che il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro Delle Vedove, è stato condannato a otto mesi di carcere (con sospensione della pena e non menzione nel casellario giudiziario) in primo grado per rivelazione di segreto d'ufficio, è giusto tornare a parlare del caso di Alfredo Cospito, l'anarchico che ha scelto il silenzio e la solitudine del 41bis come palcoscenico per le sue proteste contro una società che ritiene disumana e distruttiva. L'anarchia, la lotta contro la tecnologia e l'autoritarismo sono sempre stati i suoi cavalli di battaglia, ma le sue scelte radicali – l’attentato a un dirigente dell’Ansaldo Nucleare e un fallito attacco ai carabinieri – non hanno certo ridotto l’intensità del dibattito che lo ha visto protagonista. Cospito non ha ucciso nessuno, nonostante i crimini di cui è stato accusato. Eppure, l'ergastolo e il regime del 41bis – il carcere duro, in cui le sue condizioni di vita sono diventate a dir poco estreme – sono apparsi sproporzionati rispetto alla sua condotta. In passato, aveva ricevuto una grazia dal Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, ma il trattamento che sta subendo ora solleva interrogativi fondamentali: è possibile giustificare un simile trattamento, in particolare per un uomo che ha scelto il digiuno per protestare contro il suo destino? La risposta a questa domanda risuona nei pensieri espressi da Massimo Cacciari su La Stampa in un articolo di ormai quasi due anni fa, quando dice: “Giudicare e punire è un tremendo mestiere. Guai a non esercitarlo sulla base di alcuni irrinunciabili principi”. Cacciari invita a riflettere su tre aspetti essenziali del sistema penale: il primo, che la pena deve essere sempre proporzionata al crimine; il secondo, che la detenzione più severa deve essere una "extrema ratio" e non la prima scelta; il terzo, che la pena non può mai assumere il volto della tortura, né ledere la dignità della persona. Concetti che sembrano sempre più lontani dalla realtà di un sistema carcerario che sta sotto gli occhi dell'Europa per le sue condizioni inaccettabili. Come possiamo conciliare la nostra idea di giustizia con il principio che la pena debba avere una finalità rieducativa e reintegrativa, se essa stessa diventa uno strumento di sofferenza cieca?
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La situazione di Alfredo Cospito, dunque, si inserisce in un dibattito che trascende la sua singola vicenda personale e si fa simbolo di un problema sistemico che riguarda tutti noi. È il carcere che ci preoccupa, non solo l'individuo, perché dietro la sua sofferenza si celano interrogativi cruciali sulla natura della punizione e sulle sue implicazioni morali. Cacciari, con un appello al buon senso, chiede di evitare che l'Italia, con il suo sistema penale già sotto accusa, debba affrontare una morte per fame che – oltre a essere un dramma umano – rappresenterebbe un ulteriore fallimento per la nostra società. Non è più solo il caso Cospito a essere sotto il riflettore, ma l’intero sistema penale che lo ha incatenato in un angolo senza via d’uscita: ed è su questo, anche se non è chiaro subito il legame, che forse si inserisce l’attuale lotta governo-magistratura. Eppure, la discussione sembra essersi affievolita, come se il clamore mediatico fosse riuscito a sopraffare la sostanza del problema. La verità è che il caso di Cospito ha sollevato più domande che risposte, e per questo continua a essere un nodo irrisolto. Per quanto la sua protesta non faccia più notizia come in passato, la sua condizione rimane invariata, quasi fossimo costretti a dimenticare ciò che ci costringeva a interrogarci su come trattiamo i nostri prigionieri. Sotto questa superficie silente si nasconde una domanda ben più grande: è possibile che il sistema carcerario italiano, e più in generale quello europeo, possa ancora essere visto come una forma di "rieducazione" o è destinato a rimanere una sorta di gigantesca macchina di repressione? Non basta un piccolo movimento di protesta per scalfire l’ordinamento che ci ha dato le prigioni. Ma non è forse giunto il momento di porsi la questione fondamentale che sottende questa riflessione? E se quel sistema carcerario fosse, in fondo, anche un riflesso di noi stessi, delle contraddizioni di una società che non riesce a trovare un equilibrio tra giustizia e misericordia? Le contraddizioni, allora, non riguardano solo Alfredo Cospito, ma un'intera società che si interroga sulla natura della pena, sull'efficacia del 41bis e sul confine tra punizione e tortura. È un tema che non si esaurisce nel caso di un singolo prigioniero, ma che continua a irrorare le discussioni politiche, morali e civili. La domanda più inquietante, forse, è proprio questa: siamo disposti a pensare che la pena non possa più essere un atto di vendetta, ma debba essere qualcosa di diverso, un tentativo – difficile ma fondamentale – di restituire dignità anche a chi l’ha persa? Non possiamo più ignorare che la discussione sulla pena e sul carcere è una battaglia che riguarda tutti, non solo chi si trova dentro le mura di una prigione. Armando Punzo ha recentemente avuto il riconoscimento più alto … , è Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica italiana "per aver messo a disposizione delle persone detenute la sua esperienza di regista e attore di teatro" - E forse, quel che rende la vicenda di Cospito ancora più potente, è che mette in luce, nel silenzio e nella sofferenza, le contraddizioni di un sistema che fatica a riconoscere il valore della vita e della dignità anche in chi ha sbagliato ma poi premia chi prova a farci notare l’errore. In un mondo che sta cercando di ridefinire la giustizia, la vera domanda è: possiamo ancora parlare di misericordia in un sistema che sembra averla dimenticata? Io, nel dubbio della parte da cui è giusto stare, sto coi detenuti.
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