Piacenza capitale della logistica. Piacenza che si spacca in due sul caso Pallavicini. Ospite, fra le strade della città, all’aperto, con solo un microfono in mano davanti a una folla ipnotizzata, c’è Alessandro Barbero che parla di giovani, democrazia, partecipazione e Resistenza. In sottofondo mica giocano i nuovi ricchi del Chelsea o del Psg. A San Siro si disputa Inter-Benfica. Sembrerebbe una notte di maggio del 1965 e invece è una sera d’aprile del 2023. Una serata popolare, vecchia e nuova. In controtendenza. Un piccolo miracolo di provincia negli anni dell’omologazione selvaggia, dei Ted talks e degli intellettuali innamorati dei talk show televisivi e delle fondazioni che sganciano loro sontuosi gettoni-presenza.
Ora però uniamo i puntini. Alessandro Barbero, il medievista più amato d’Italia è stato ospite della Cooperativa Popolare Infrangibile 1946. A organizzare il tutto, Carlo Pallavicini, dirigente Si Cobas, arrestato nel luglio dello scorso anno insieme al coordinatore nazionale del Si Cobas Aldo Milani e altri due dirigenti del sindacato piacentino, Mohamed Arafat e Bruno Scagnelli. Le accuse rivolte ai quattro riguardano gli scioperi condotti nei magazzini della logistica della città emiliana fra il 2014 e il 2021. Sono pesantissime. Spiccano, in particolar modo, l’associazione a delinquere finalizzata al perseguimento di “interessi di tutt’altra natura” e il sabotaggio, nonché l’interruzione, del pubblico servizio. Agli occhi di diversi osservatori l’ipotesi di un provvedimento teso a limitare fortemente, se non reprimere del tutto, la lotta sindacale in quanto tale, non pare eresia. Sostiene Si Cobas: “Se il modello delle cooperative spurie è connesso a opachi e continui spostamenti di denaro (non di rado di provenienza illecita), quello promosso dalla multinazionale Amazon scava ben più a fondo nelle contraddizioni del capitalismo 4.0, un sistema che teoricamente si propone di utilizzare le nuove tecnologie non solo per creare nuovi modelli di business e aumentare la produttività, ma anche per migliorare la qualità delle produzioni e le condizioni di lavoro. In realtà, è proprio nella logistica che il capitale sta disegnando le nuove frontiere dello sfruttamento lavorativo”. Tombola. La logistica come terreno di lotta e nuove forme di resistenza (e intanto, da orizzonti torinesi, si avvicina la figura di Barbero). Ma restiamo in cronaca: nell’agosto del 2022 cade l’accusa più grave, quella di associazione a delinquere, e ai quattro sindacalisti sono revocati i domiciliari; quindi, nel novembre 2022, il Tribunale del Riesame respinge l’appello della Procura di Piacenza e i quattro restano liberi e senza alcuna misura cautelare. È forse in questo momento che nasce la serata con Alessandro Barbero all’Infrangibile. Pallavicini, quasi commosso, introducendo lo storico, afferma: “In questa città ci sono ancora più di mille procedimenti penali aperti ai danni di lavoratori e sindacalisti, più del numero complessivo di tutti i procedimenti della stagione 1969-72, quella iniziata nel famoso autunno caldo del ‘69. Qui c’è un problema”. E sì, pare proprio di sì. Barbero non sarà la soluzione, ma ha sostenuto la causa di Pallavicini e a Piacenza parla in assoluta libertà. Meno accademia del solito (“Parlo fuori dai miei normali territori, se il tema fosse la Rivolta dei Ciompi potrei intrattenervi per tre ore”), ma il senso della Storia che tiene ancorato Barbero a questioni sin troppo ampie (gli chiedono della democrazia, dell’associazionismo, dei giovani e la politica, della nuova scuola dell’alternanza scuola-lavoro) è fortissimo. E nel momento in cui ricostruisce il controverso attentato di via Rasella raggiunge vette di dotto fervore.
“Sono un uomo del mio tempo e ragiono con le categorie del Novecento”, affermava poco tempo fa all’interno della Live #162 “La fine di un’epoca” sul canale YouTube Parabellum. E la Cooperativa questo voleva: un uomo di cultura che per spiegarci questa iperliquida fetta di nuovo millennio utilizzasse categorie storiche ancora vive e vicine: i partiti, i sindacati, la partecipazione. “I giovani? Purtroppo sono sempre meno numerosi e sono tornati a contare poco, come prima del ’68. I partiti? Compagni (Pci) e amici (Dc) erano divisi su tutto, ma quegli schieramenti catalizzavano idee e visioni. E soprattutto aggregavano. Oggi siamo tornati all’idea che la gente non debba associarsi, che i sindacati siano un pericolo per l’equilibrio democratico”. La sera è fresca, girano le birre e il fumo ti si attacca addosso nonostante il vento intermittente. “Nell’era digitale è riemersa pian piano una vecchia idea dei padroni: la libertà va benissimo, ma a patto che sia individuale. Io ti do il lavoro, se le condizioni di lavoro e la paga non ti stanno bene tu sei libero di andartene, ma non di lottare per migliorare la tua posizione. Persino Cavour, che non era certo un comunista, capì che con i lavoratori era necessario negoziare”. Stiamo perdendo per strada i diritti sociali, forse anche perché la sinistra mainstream ha ormai virato da anni sui diritti individuali. Ma questo lo dico affermo io, non Barbero, che sul termine “democrazia” sorride: “Sì, certo, viviamo in una democrazia, ma abbiamo la sensazione che la nostra voce conti sempre meno. Un ateniese, osservando da vicino la nostra democrazia odierna, una risata se la farebbe”.
Logistica e libertà, con la libertà che sempre di più ruba l’ideale proscenio fino a sbattere, inevitabilmente, contro il 25 aprile, il colosso dietro l’angolo. Solo qualche giorno e torneranno le polemiche, i “qui non c’è niente da festeggiare”, “Bella ciao” e tutto l’annesso corredo. Un 25 aprile anticipato qualche settimana fa dal ministro Ignazio La Russa, che ha incautamente affermato: “L'attentato di via Rasella non è stata una delle pagine più gloriose della Resistenza partigiana, quelli che i partigiani hanno ucciso non erano biechi nazisti delle SS ma una banda musicale di semipensionati, altoatesini (in quel momento mezzi tedeschi, mezzi italiani), sapendo benissimo il rischio di rappresaglia al quale esponevano i cittadini romani, antifascisti e non”. E qui Barbero, lo storico, si scatena perché percepisce l’odore severo dei documenti, delle prove. Delle fake news (un tempo si diceva “leggende metropolitane”) da “debunkare”. Davanti a un pubblico che pende dalle sue labbra affonda il colpo con l’analisi forse più intrigante dell’intera serata. “La Russa la variante della banda musicale se l’è sognata, ma soprattutto ha ipotizzato, in quel 1944, una scena paradossale: ci sono ragazzi italiani di vent’anni che vedono passare una colonna di soldati tedeschi che cantano canzoni tedesche. Secondo La Russa gli italiani, prima di attaccarli, sarebbero dovuti andare alla caserma tedesca a chiedere: a che reparto appartengono i vostri militari? Perché noi vorremmo attaccarli, sa, ma non vorremmo che fossero altoatesini!” (Barbero osserva anche che “all’epoca, gli altoatesini avevano optato per la cittadinanza tedesca, per la lotta antipartigiana”).
“Quell’attentato fece 33 morti tedeschi, ma la rappresaglia tedesca ne fece 300. Molta gente non ha mai perdonato la colpa di quei morti agli attentatori, ma se fai la guerra, ahimè, devi rischiare una rappresaglia. Via Rasella e le Fosse Ardeatine sono state sempre l’argomento preferito di chi ha voluto screditare la Resistenza. Sulla questione girano balle clamorose. Una su tutta, quella secondo cui i tedeschi, prima di fucilare più di 300 persone, avevano affisso dei manifesti che recitavano: se gli attentatori si presenteranno, noi non faremo alcuna rappresaglia. Di quel manifesto non c’è traccia. Non solo, il generale tedesco Albert Kesselring, al processo per crimini di guerra, fu chiesto se questa cosa fosse vera. “No, ma sarebbe stata una buona idea”, rispose”. Barbero individua le ragioni di ogni controversia sul 25 aprile in un’Italia storicamente divisa in tre e non in due: “È stato scorretto raccontare, per troppo tempo, che l’Italia fosse divisa tra fascisti e comunisti. In realtà l’Italia era, ed è, divisa in tre: c’erano i fascisti, c’erano i comunisti resistenti, ma poi c’era una buona parte di gente comune che, semplicemente, seguiva la corrente: fino a un certo punto, per loro, il Duce è stato un uomo giusto, con l’entrata in guerra dell’Italia hanno cominciato a mugugnare. Quando poi lo hanno ucciso hanno gioito perché finalmente se l’erano levati dalle scatole!”. “La Resistenza italiana – continua – non è stata militarmente irrilevante. Ha tenuto costantemente in scacco quattro/cinque divisioni tedesche, seppur non quelle di primissimo piano. Sempre Kesselring ebbe a dire: Roma, tra tutte le capitali dei Paesi occupati, è stata quella che ci ha dato più problemi”.
Forse sono sassolini da togliersi in una qualunque serata di provincia, o forse è qualcosa di più. Ce ne accorgeremo a giorni, misurando i gradi delle polemiche. “Il problema sul 25 aprile è che questa spaccatura in tre si è perpetuata fino ad oggi. Per anni la sinistra ha avuto una certa riluttanza ad ammettere che la Resistenza fosse stata anche una guerra civile. Nel 1991 uscì il testo di Claudio Pavone, “Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza”, e quando lo citavo emergeva, in genere, una sensazione di disagio e sconcerto. In passato era sempre stato ovvio che ci fosse stata una guerra civile in seno alla Resistenza, ma poi negli anni ’90, con l’obiettivo di pacificare il Paese, si preferì comunicare la Resistenza non come una guerra fratricida, bensì come una guerra contro l’invasore straniero. Con quale risultato, poi? Che se oggi la destra ascolta Bella ciao – una canzone in cui si parla degli italiani che vanno a combattere l’invasore straniero –, si offende. Oggi come allora c’è tanta gente a cui del Fascismo non frega niente”. È il terzo ingombrante polo con cui fa i conti Barbero. Un’Italia banderuola, eternamente attendista, che Barbero pare avere in (storica) antipatia più dell’Italia rossa e di quella nera. Sì, vabbè, ma l’associazionismo che non c’è più? “Io, ad esempio, faccio parte di un gruppo di persone che si ritrovano a giocare con i soldatini di piombo. Le associazioni sono infinite, oggi, ma purtroppo alimentano soprattutto il nostro individualismo. Niente di male, eh, però oggi la gente si sente sola. Cent’anni fa non era così. E da storico non ho dubbi: ci sono state epoche – il Medioevo è stata una di queste – in cui era chiaro che per ottenere qualcosa fosse necessario collegarsi con tantissime altre persone. L’individuo, da solo, non bastava”.