La musica blues, insieme alla sorella jazz, sono oramai come il Rinoceronte di Giava e il Leopardo dell’Amur. Animali in via di estinzione. Dopo essere stati uccisi da Benito Mussolini negli anni del dominio fascista, aver goduto di almeno 35 anni di splendida vita, oggi sono due generi lacerati dalla discografia italiana nonostante il crescente numero di ristampe discografiche legate per lo più a grandi nomi del passato. Eppure il blues era considerata la musica del Diavolo e attorno ai bluesmen ruotano mille leggende, fatte di donne, alcol, droga patti col demonio e, come conseguenza, aneddoti curiosi e stupefacenti capacità, ognuna capace di dar vita a un corpo mitico ampio e stratificato. Non molto diverso dai “reverendi trapper” contemporanei, solo che, più che aver fatto patti con il Diavolo, sono in realtà veri e propri Luciferi apparsi sulla terra dopo il 2015. E oltretutto, nonostante questa sorta di Cassazione subita dalla discografia, molti artisti blues, anche giovani ed emergenti, nei live riempiono e fanno numeri non proprio secondari rispetto al medio livello degli artisti trap. Le chiacchiere stanno a zero quando sento parlare che la musica urban modaiola e insignificante racconta le “periferie”, le emarginazioni. Ma ci vogliamo prendere per il cul*?
Il blues è nato e si è sviluppato per via della schiavitù (avete compreso cosa significa schiavitù?) delle comunità nere, nelle regioni del sud degli Stati Uniti, fratelli di popoli che oggi rigettiamo in mare e continuiamo a schiavizzare non più nei campi di cotone ma in quelli di pomodori e arance. È la manifestazione profana di un sentimento, e di un dolore, che ha avuto un lungo, inesorabile tracciato umano e civile, e ha ritrovato nella parola poetica prima, nel canto la sua ampia e angosciosa possibilità di espressione. E di senso di libertà. Solo ad elencare nomi dei grandi mostri sacri del blues la mano sulla tastiera trema mentre digito: B.B. King, Muddy Waters, John Lee Hooker, Stevie Ray Vaughan. O ancora di più trema scrivendo i nomi dei più grandi esponenti del british blues come Eric Clapton, Chicken Shack, Fleetwood Mac, Graham Bond, Long John Baldry . E in italia: da Natalino Otto e il Trio Lescano, Roberto Ciotti fino a Pino Daniele, Edoardo Bennato, Noemi e altri nomi importanti nel panorama musicale Italiano. Alcuni di loro, per esempio lo stesso Pino Daniele e Noemi che, pur avendo avuto periodi incredibili con l’arte blues che li rendeva unici, per non vivere in un mondo che si è avviato sempre di più verso una mancanza di cultura musicale, si sono arresi ad una musica più tesa al pop, sempre ricca del colore blues ma più commerciale. La discografia di Pino Daniele racconta proprio il tracollo del mito del blues in Italia. I suoi album dal 1977 al 1991 - suono, testi e atteggiamento - sono in tutto blues. Poi il cedimento al vestito pop che ha reso la sua musica sicuramente più accessibile ma cancellando quell’anima nera che l’ha accompagnata specie in Nero a Metà. I Magazine? Le riviste? Chi parla oramai di blues, se non la omonima superstite rivista di Marino Grandi? E tra l’altro i mostri sacri cominciano ad essere sempre meno, perché la vita di questi personaggi si sta assottigliando sempre di più a causa dell’età. Diverranno un pezzo di storia e parlare con queste persone già oggi è come sfogliare un libro. Veniamo poi ai live.
Oggi giovani e vecchie leve del jazz e del blues tengono in vita centinaia di locali e club in Italia. Attirano cultori, esperti e appassionati di generi da cui ancora oggi tutti, consapevolmente o inconsapevolmente, rubano. I festival sono elementi degni di nota. Ci sono stati parecchi festival interessanti nel nostro Paese, e ci sono anche tuttora. Ma ce ne sono altri che invece hanno finito per tenere solo il nome di blues. Il Pistoia Blues, ad esempio, negli anni ’80 ha sempre fatto del buon blues, ma poi è diventato qualcosa di puramente commerciale in cui il suffisso ha finito soltanto per aumentare la confusione in chi va ad ascoltare la musica di personaggi che sono solo d’entertainment. Per assurdo, checchè se ne dica, Luciano Ligabue tiene vivo il genere nella pianura padana ed Edoardo Bennato in giro con i live in italia. Ma Sanremo? Se ne frega del genere per ovvie ragioni. È la cattedrale del pop, ma lo è ancora? Adesso che ha aperto a generi “diversi” perché non dare spazio anche ad artisti blues? D’altronde, quando vai a Sanremo nel periodo del festival, è come quando capita di andare a un concerto blues: trovi un sacco di gente. Ma quanti il giorno dopo vanno a comprare un disco di blues? Lo trovano? Forse solo ristampe. Pochissimi, forse gli stessi che lo compravano già anche prima. Il concerto è un momento live da vivere godendo di bella musica e bella gente ma non è un trade union sufficiente a indurre la gente ad avvicinarsi a quella musica. Anche I talent non aiutano. Eppure c’è gente molto capace e soprattutto che conosce la musica, la suona e non usa artifici vocali o consolle o software che creano musica che suona “artificiale”. Spesso sono artisti che hanno studiato gli strumenti e spessissimo sono anche virtuosi, specie nel jazz, e musicalmente creativi. Chi conosce Ciosi? Enrico Cipollini, Arianna Antinori, The Blues Queen, Daniele Mammarella?
X Factor finalmente è in crisi. Le fabbriche di "mostriciattoli" che durano una stagione, tutti orientati alla Gen Z, incuranti che sono ignorantissimi consumisti e basta, alla lunga ne pagheranno amare conseguenze. Idem le discografiche che in italia, rispetto alle multinazionali cui appartengono, non hanno nessuna cultura di musica blues e jazz (figuriamoci della classica). D’altronde, ve lo vedete voi un giovane Presidente di una delle discografiche italiane che per 25 anni ha fatto il dj e poi ha lavorato tra urban, pop, trap e rap a parlare di blues? E gli A&R (Artists and Repertoire, "artisti e repertorio") attuali? Vi giuro che pagherei chissà cosa solo per vedere persone, i cui nomi mi trattengo a stento dal fare, sedere al tavolo a parlare di musica e produzioni con Ciosi o Cipollini: altro che le comiche di Stanlio e Olio! E anche nei Presidenti più “maturi” l’idea di lavorare questo tipo di prodotto nemmeno li sfiora. I talent scout non entrano nemmeno in quei locali o club dove si suona davvero perché le loro orecchie non ascoltano: sentono! E concludo con una domanda: quanto continueranno ancora le discografiche ad investire su Zucchero, Ligabue o Raphael Gualazzi? Uno di loro pare sia già senza contratto. Magari ci penseranno i tedeschi con l’etichetta facente capo a Eventim Live International. Tornerò presto a parlare di musica blues con i numeri della discografia e dei live, per dare voce a generi vilipesi oggi dalla mancanza di cultura dei discografici e dalle mode che, come prassi, poi cambiano e tornano.