Due giorni fa è arrivata la notizia che tanti, tantissimi di noi ormai non speravano più di ricevere: la quarta stagione di Boris si farà. Lo ha detto Alberto di Stasio, uno dei protagonisti, e lo ha confermato poi Luca Vendruscolo, uno degli autori. Sono passati 13 anni da quando la serie televisiva scritta e ideata da Mattia Torre, Giacomo Ciarrapico e il già citato Vendruscolo fa il suo timido esordio su Fox, il 16 aprile. Boris, che avrebbe dovuto chiamarsi Sampras (nome poi accantonato per evitare ritorsioni legali da parte della Nike) narra le tragicomiche vicende di una troupe televisiva romana intenta a girare una generica fiction italiana, di quelle pomeridiane dedicate a un pubblico generalmente anziano, “Gli Occhi del Cuore”. È una serie comica e vanta un cast di professionisti di tutto rispetto, una confezione curata (lo si capisce sin dall’iconica sigla in apertura opera di Elio e Le Storie Tese) e una sceneggiatura a prova di bomba. I risultati d’ascolto però non sono affatto promettenti: il 2007 è il pleistocene della tv on demand, un’era lontanissima da quella odierna dominata dai servizi di streaming video in cui il concetto di “palinsesto su misura” è vacuo e fumoso quanto la locuzione “Realtà Virtuale” nel 1985. Insomma, Boris non se lo fila quasi nessuno. Ma quei pochi spettatori che si appassionano alle vicende del regista Renè Ferretti e la sua scalcagnata squadra di lavoratori dello spettacolo rimangono folgorati. E così inizia un contagioso passaparola che incrementa la fanbase della serie e spinge qualche temerario a mettere in rete (su youtube) le puntate delle tre stagioni.
Boris diventa così un cult assoluto. Ricordo che nel 2008, a Milano, venni invitato a una festa di Sky e lì, mentre mi avventavo sul buffet con la fame antica di un immigrato che dalla Sicilia è appena sbarcato a Ellis Island negli anni Trenta, mi venne presentato un giovane come “il regista di Boris”. Non ricordo come si chiamasse e non avevo ancora visto nessuna puntata della serie ma mi sentii in dovere di complimentarmi, anche solo per l’aura di “cosa cool” che emanava quel prodotto: lo avevano visto in pochissimi ma sembrava bellissimo. Mi regalarono anche un portachiavi a forma di pesce rosso (Boris è appunto il nome dell’amato pesce del regista Ferretti). Tornato a casa mi affrettai a recuperare la prima puntata e già dopo 10 minuti sapevo che niente, nella mia esperienza di spettatore partecipante, sarebbe più stato come prima. Boris divenne per me una magnifica ossessione: guardavo e riguardavo gli stessi episodi con una reiterazione che non riscontravo dai tempi di Fantozzi. Le battute, le gag, le situazioni non perdevano nulla della loro efficacia nemmeno alla millesima visione. Il merito non era solo dei dialoghi perfetti e del cast azzeccatissimo: qualche anno prima dell’arrivo di Boris avevo fatto la mia prima esperienza lavorativa su un set romano. Tutti i giovani milanesi sanno come ci sente: Milano è efficente, dinamica, pulita, trasparente nella sua struttura concentrica, rassicurante nelle sue geometrie. Roma è un’altra cosa. È immensa e ingovernabile come un oceano in tempesta. Più che una città è una galassia di sistemi fulgidi, morenti, tetri, bellissimi, antichi come Atlantide, eterni. I suoi abitanti sanno che Roma esisteva da secoli prima di loro e che esisterà nei secoli a venire. Pur essendo caduto anche io in passato nella sterile diatriba “è meglio Roma/è meglio Milano” in ultima analisi questa proverbiale rivalità non ha senso di esistere. Come si fa a paragonare una città ad un universo a sé stante?
Comunque, lavoravo ad una serie di sitcom monocamera (il modello di Camera Cafè allora era il dogma produttivo dominante) che si giravano in un capannone di lamiera sulla Salaria. Io mi occupavo di confezionare contenuti extra, il backstage. Qui entrai per la prima volta in contatto con le famose maestranze romane, veri e propri archetipi viventi: il direttore della fotografia che si gratta i coglioni e si addormenta durante lo shooting, il cameraman che ti fa brutto perché sei giovane e sei di Milano (e nel mio caso, avevi l’aggravante di vestirti come la controfigura povera di un VJ di MTV), l’attrezzista che ti risponde a monosillabi e ti guarda nello stesso modo in cui il Sergente Hartman fissa il soldato Palla di Lardo in Full Metal Jacket. Alla fine me la cavai e mi feci anche degli amici, tra cui Valerio Aprea, futuro attore di Boris nei panni dello sceneggiatore interprete di uno dei monologhi più leggendari della serie, quello della “locura”.
Vedere Boris mi fece vivere un deja vu violentissimo: non solo contemplavo luoghi e situazioni incredibilmente familiari ma mi sembrava che certi personaggi, certe figure, fossero state modellate esattamente sugli originali con cui avevo lavorato. Le analogie erano così smaccate e numerose che iniziai a credere che, a parte Aprea, al progetto di sitcom monocamera romane avesse lavorato qualche autore della serie.
Pensai anche che Boris non avrebbe mai superato lo status di culto, che sarebbe rimasto in una nicchia. Perché il mondo della produzione televisiva italiana di Boris è raccontato con grande comicità ma anche con assoluto realismo. Per me, che lavoravo in tv già da diverso tempo, era facile capire tutti i sottintesi e le dinamiche tra i personaggi. Ma un impiegato, un panettiere, un artigiano, uno chef, i miei genitori, li avrebbero afferrati? Tre stagioni, un film e uno sterminato stuolo di fan hanno dimostrato che sbagliavo. Boris è considerata all’unanimità una delle serie più belle mai prodotte in italia. Io, con buona pace degli ottimi Gomorra, The New Pope, Romanzo Criminale, mi spingo a dire che è la migliore. Perché fa quello che Fantozzi fece nel 1975, solo che anziché il disumano ambiente ipergerarchizzato della megaditta e la quotidianità piccoloborghese e consumista in cui annaspa il personaggio di Villaggio, qui c’è tutto il mondo delle produzioni televisive italiane raccontato con un piglio irriverente, comicità a tratti grottesca ma anche tanto cinismo e un’aderenza al reale che lascia senza fiato. Il regista navigato logorato dal dubbio se continuare a produrre merda che si fa beffe dello spettatore o ritrovare un po' delle ambizioni che avevano animato i suoi inizi; l’attrice totalmente incapace raccomandata dal presidente del canale grazie alle sue qualità a letto; il protagonista narcisista patologico che disprezza il cinema italiano e sogna Hollywood nonostante l’assoluta mancanza di talento; le maestranze scoglionate che ciondolano sul set e lamentano straordinari non pagati; l’efficiente e serissima assistente alla regia, l’unico baluardo tra lo sfacelo totale e la consegna delle puntate in emissione; gli sceneggiatori incapaci e vili che cercano di fatturare lavorando il meno possibile; il direttore di rete tracotante e cazzaro; gli stagisti bullizzati e con meno diritti di un carcerato in Korea del Nord… una galleria di personaggi talmente imperfetti, fragili, sinceri e vili da risultare irrimediabilmente veri. Attraverso il microcosmo del set di una fiction di infimo livello gli autori raccontano un paese di allegri peraccottari pressapochisti, di precariato, di prevaricazioni umane, di passioni di sogni, di speranze e di frustrazione, di lambada e allegria, un paese troppo spesso ancorato al peggior conservatorismo che viene spacciato per modernità grazie a “alla simpatia, al colore, alle paillettes” usate come diversivo ornamentale, “un paese di musichette mentre fuori c’è la morte”, come recita il superlativo Aprea nel già citato monologo della locura. E proprio il cast, perfetto, in stato di grazia, è un altro degli ingredienti che fanno di Boris un capolavoro assoluto. Uno stuolo di grandissimi professionisti in grado di dare cosi perfettamente corpo ai loro personaggi da assumerne le identità anche ad anni dalla fine della terza stagione. Paolo Calabresi, con cui parlai una volta quando entrambi lavoravamo a Le Iene, mi disse con un certo spaesamento che i ragazzini ancora lo fermavano per strada chiedendogli un video in cui lui gli urlava “merda!”, come Biascica fa con il suo stagista per chiamarlo. Ogni nome in Boris è al posto giusto: Sermonti, che fino ad allora era noto soprattutto per Un Medico In Famiglia, ci regala momenti di inarrivabile comicità interpretando il vanesio mitomane Stanis; Carolina Crescentini nei panni dell’attrice isterica e incapace mostra doti recitative sovrumane e fino ad allora inaspettate; Francesco Pannofino, che prima di Boris era famoso come ottimo doppiatore, è perfetto nelle vesti di umorale regista a capo della baracca; il viscido direttore di rete ha il volto del magistrale Antonio Catania; Caterina Guzzanti si conferma attrice “di prima fascia”, per usare una locuzione dello show, facendo innamorare almeno una generazione di spettatori interpretando la pragmatica e ferrea Arianna.
Proprio con Caterina ho lavorato la scorsa estate ad un programma televisivo e, dopo la mia iniziale reticenza, le ho fatto la domanda che probabilmente si è sentita rivolgere di più nell’ultimo decennio: “la quarta stagione si farà?”. Lei mi rispose con una voce stanca: “mah… ma non so se si farà. Mattia poi ha lasciato un grande vuoto”. Torre è prematuramente scomparso dopo una lunga malattia nel 2019. Ora però sappiamo che Boris 4 si farà. Gli altri autori hanno dichiarato che tutto ciò che realizzeranno sarà in ricordo del collega. Le aspettative sono alte anche se è passato molto tempo e il rischio dell’effetto nostalgia fuori tempo massimo è concreto. Non potevo a questo punto non risentire Caterina per un commento il giorno dopo l’annuncio.
“La ragionevolezza mi impone di rispondere che finché non c’è il primo ciak io non ci credo. Ma sembra possibile. La mia paura è di non riuscire più a capire, a diventare Arianna, il mio personaggio. È passato molto tempo, sono invecchiata, ho avuto un figlio, paradossalmente mi sono anche ammorbidita rispetto al passato”. Ma non è possibile che anche Arianna sia cambiata anche lei in tutto questo tempo? Che si sia ammorbidita anche lei? “Forse sì. Io spero solo che Arianna mi sappia accogliere ancora, dopo tutto questo tempo”.
Non ho dubbi che sarà così e come diceva il mio vecchio maestro, comunque vada sarà un successo.
Biascica, apri tutto.