Calma e gesso. Tu che ora stai scrivendo, tira il fiato e ragiona. C’è un trappolone grosso come l’Arena O2, qui dietro, che t’aspetta. “Broken by desire to be heavenly sent” – recitano i dati – “è l’album che ha venduto di più, nella prima settimana di vita, in Gran Bretagna nel 2023. Da venerdì 19 maggio, il disco – che include le tre hit (tutte andate al numero 1 in UK): “Pointless”, “Wish you the best” e “Forget me” – ha infatti venduto, nella sola Gran Bretagna, oltre 76mila copie”. Tutto bene? Per Lewis Capaldi, che fino a ieri l’altro ero convinto fosse imparentato con Jim Capaldi dei Traffic, tutto alla grande. Solo che il buon Lewis – non che gliene importerà tanto, badate – è (involontario?) protagonista del tremilionesimo episodio dell’infinita saga “piaccio molto al pubblico che mi premia e mi vuole bene, ma i media con me, se proprio mi va di lusso, sono freddini”.
Pitchfork, che con il pop da classifica non va quasi mai d’accordo – a meno che non sia interpretato da diciottenni figli di cinque genitori diversi e con un robusto passato disfunzionale alle spalle – ha piazzato un tondo 4.0 al tanto venduto album in questione. Freddini, appunto, Guardian e NME, che non vanno oltre tre anemiche stelle di politica stima. Senza la pretesa di risolvere qui l’eterna contesa fra pubblico e critica, dunque ci chiediamo: chi ha ragione?
Pur respirando profondamente, pur calmo, pur certo che la puzza sotto il naso di certa critica indie sia storicamente insopportabile, mi verrebbe proprio da dire che hanno ragione le testate specializzate. Cos’ha che non va questo album di Lewis “bravo ragazzo” Capaldi? Tecnicamente nulla, a parte la voce di Lewis stesso, alle volte così insistente nel suo monocorde sbraitare che ti verrebbe da cacciargli una spugna in bocca e sedarlo per un’oretta almeno. Ma a parte questo effetto da cantante pop/R&B sotto anfetamine, spesso associato alla “sincera visceralità” del cantautore che mostra ogni sua emozione e cicatrice davanti a un pubblico rapito da tanta sensibilità, l’album sembra pensato, canzone dopo canzone, per una rom-com hollywoodiana di inizio millennio. Scena top per appiccicarci il sentito commento capaldiano: lui e lei, dopo essersi scornati, scontrati e punzecchiati per 80 minuti, si accorgono di volersi bene, di amarsi, di non poter fare a meno l’uno dell’altra. Ecco, lì, in quella scena, fino a ieri, poteva starci comodo un James Blunt o addirittura un James Morrison, per non uscire dal Regno Unito. Da oggi ci sarà Lewis Capaldi, che a volte è così zuccheroso da far passare Ed Sheeran come uno sboccato eroe picaresco a caccia di grane.
Ho ascoltato “Broken by desire to be heavenly sent” tre volte a fila. Qualche volta mi ha un po’ urtato l’insistenza di Capaldi nello spolmonare frasette preconfezionate che ha avuto la sfrontatezza di ficcare in ogni singolo testo. Qualche volta mi ha anche fatto credere che il mondo là fuori sia una sorta di immenso campo giochi per anime che hanno solo voglia di incontrarsi, conoscersi e amarsi (salvo poi lasciarsi e dover rimettere insieme i cocci). Il problema vero, però, è quanto poco siano memorizzabili (e infatti non li cito) pezzi che, tuttavia, sono stati scientificamente e smaccatamente pensati per essere inni. Per concludere: se la gente apprezza questo album di sdolcinati e superemotivi pop anthems (complici anche le collaborazioni con produttori e hitmaker come il Re Mida Max Martin, Malay e il fedele Phil Plested), significa semplicemente che Capaldi conosce il pubblico meglio di qualsiasi sociologo e che il suo pop ha alle spalle focus group molto attenti. Chissà cosa pretendono, i giornalisti, in fondo.
Nell’era dei numeri come metro per misurare ogni tipo di qualità umana e professionale (vendi, sei bravo; non vendi, sei un fallito), Capaldi ha ragione e zittisce chiunque. Se però un posticino alla critica è rimasto, è il caso che la medesima, senza sentirsi né eletta né intoccabile, utilizzi questo luogo per affermare ciò che fino a ieri sarebbe apparso ovvio: non è tutto oro quello che luccica.