In merito al settandaduesimo Festival di Sanremo, di cui si sta scrivendo in questi giorni, ci sembra opportuno spendere qualche parola in più sull’intervento di Roberto Saviano nella serata di giovedì, tanto propagandato quanto atteso. L’occasione dei trent’anni dall’omicidio dei magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, che nel ‘92 squassò il paese segnandolo irrimediabilmente, era troppo importante perché l’organizzazione del festival non ne approfittasse, e troppo ghiotta per Roberto Saviano per non mettersi nuovamente in mostra, praticamente a reti unificate, data l’enormità dell’audience televisiva. Ci chiediamo perché ne abbia dovuto parlare proprio lui e non un’altra persona ugualmente qualificata, e la risposta appare abbastanza semplice. Innanzitutto, la popolarità di Roberto Saviano ne fa un vero e proprio collettore di consensi, visto che ha improntato la sua vita alla figura di “eroe senza macchia” (ma non senza paura, perché si fa scortare) e “martire in predicato”, quindi lo si vuole assimilare alle figure di Falcone e Borsellino, eroi veri (non propagandati a priori) che si sono fatti ammazzare pur di svolgere la loro funzione. Per questo, esibendosi sul palco dell’Ariston, Saviano ha voluto consolidare questo processo d’identificazione, fondamentale per mantenere il suo ruolo.
In secondo luogo, l’opportunismo degli organizzatori – ottenere il massimo risultato col minimo sforzo – non dava scelta: o Saviano o nessuno, perché il pubblico deve poter fare la solita associazione mentale senza sforzare il pensiero, del tipo: Roberto Saviano uguale legalità e coraggio, mentre chi non lo idolatra o non lo approva uguale persona sospetta o mafiosa o rancorosa eccetera. Tutte cose ormai viste e straviste, al punto che sono diventate anche noiose, scontate, inutili. Al punto che l’esibizione in discorso è risultata scadente, ripetitiva, una sorta di “supplizio finale” nella già lunga serata del Festival. In terzo luogo, c’è il fattore narcisismo, che a tutti gli effetti appare quello decisivo, il vero motore delle cose. Come ha osservato lo scrittore Walter Siti nel saggio Contro l’impegno (Rizzoli 2021):
A Napoli lo accusano di essere un nemico della sua terra, si affiggono manifesti contro di lui, quando cammina per strada (scortato dai carabinieri) gli urlano contro; all’opposto, centinaia e poi migliaia di lettori lo sostengono, lo incitano “vai avanti”, lui sa che fin che avrà i riflettori puntati su di sé alla camorra non conviene ucciderlo – il suo orizzonte mentale si rafforza in senso manicheo, nel mondo non esistono che ammiratori o odiatori. Il pubblico è la sua unica difesa, il che inevitabilmente lo conduce a una sopravvalutazione dei lettori; e intanto rimprovera ai propri paesani di volere “una vita semplice, normale, fatta di piccole cose” (quella che a lui è negata) mentre intorno a loro c’è “una guerra vera”. In una prospettiva bellica aveva auspicato che la sua vita diventasse “un campo di battaglia” ed eccolo accontentato. (…) A leggere gli articoli scritti tra il 2007 e il 2009, poi raccolti in La bellezza e l’inferno, si ritrova intero questo groviglio di surdeterminazioni: Saviano proietta un ideale di sé come individuo “pericoloso” perché le sue parole lo sono, e cerca ovunque fratelli in eroismo – Miriam Makeba, Anna Politkovskaja, ma anche eroi sportivi come Lionel Messi e Clemente Russo, o il jazzista Michel Petrucciani. Tutte persone che in vario modo hanno rischiato il proprio corpo per una passione (Messi con le iniezioni di ormoni per la crescita, Petrucciani con la malattia che gli frattura le ossa a ogni movimento brusco, e così via), tutti alter ego da esaltare, messaggeri dell’esterno. Quanto a sé, si conferma nella postura agonistica, convincendosi che “più ricevo attacchi, più so di essere nel giusto” (pseudoargomento caro agli autocrati di ogni stagione); molti nemici, molto onore.
Da qui derivano gli atteggiamenti pubblici eccessivi ed egocentrici di Saviano, spiccatamente antagonisti, nei suoi interventi su ogni fatto politico-cronachistico-culturale che abbia qualche rilievo. Ed è qui che vediamo l’egocentrismo sfociare quasi fatalmente nel narcisismo, con la centralità irriducibile che il suo ego si assegna. Limitandoci al campo letterario, vediamo un esempio che risale al 2015: l’editore Bompiani incarica Saviano di scrivere l’introduzione a una nuova edizione de Lo straniero di Albert Camus. Ebbene, questo è l’inizio: «Albert Camus in questi anni mi è stato accanto mentre mangiavo, dormivo, scrivevo. Accanto mentre mi disperavo. Accanto mentre cercavo brandelli di felicità». Ecco: anche quando gli chiedono di scrivere l’introduzione a uno dei massimi capolavori letterari europei, lui non riesce a non parlare di sé, della sua ricerca di brandelli di felicità, del suo disagio, del suo mangiare e dormire e scrivere. E prosegue condendo l’autocelebrazione col vittimismo: «Accanto a me mentre tenevo il punto contro l’idiozia estremista, in un’Italia che spesso fa dell’estremismo di maniera scudo, appartenenza, bandiera». È di queste cose che, francamente, siamo stufi: ogni occasione diventa buona per sparare contro l’Italia “estremista” (quindi cattiva) che non lo ama, come se si trovasse nello studio televisivo di Fabio Fazio, ovvero in uno dei gangli del potere mediatico, a fare i suoi sermoni.
Il suo bisogno di essere sempre visibile, in prima linea, rende obbligate molte scelte mediatiche che vedono in lui e solo in lui il rappresentante della lotta alle mafie, camorre ecc. da offrire al grande pubblico. Una specie di totem, di icona generalista: che però, con l’andare del tempo, diventa non solo ripetitiva e sempre meno efficace, ma finisce per scadere anche nella banalità gratuita, fatta di slogan e parole d’ordine che hanno poco da spartire con l’impegno sostanziale e sostanzioso. Come caso esemplare citiamo un episodio grottesco di alcuni anni fa, durante le operazioni di “raddrizzamento” della nave Costa Concordia all’Isola del Giglio. Su Facebook, il mitico Enrico Mentana dichiara: “Vediamo chi sarà il primo gonzo, politico o giornalista, a usare la Costa Concordia come metafora, per frasi geniali tipo: ora raddrizziamo la nave Italia”. E poco dopo, dal suo profilo, arriva pomposamente Roberto Saviano: “Dietro la morbosità dei media nell’osservare le operazioni all’isola del Giglio, forse, c’è qualcosa di più profondo della speculazione sul disastro celebre. Sembra muoversi un impronunciabile sogno da subcosciente: se si raddrizza la nave, simbolo di un paese alla deriva che lentamente affonda, c’è speranza magari che si raddrizzi l’Italia e che torni a galleggiare”.
Capito? La “morbosità dei media” è roba degli altri (non sua, naturalmente), mentre al Saviano-eroe spetta l’“impronunciabile sogno da subcosciente”, con buona pace dei gonzi evocati da Mentana. Per inciso, e per concludere: Falcone e Borsellino non hanno detto “noi siamo eroi e quindi ci facciamo ammazzare”, ma hanno fatto il loro lavoro, si sono fatti ammazzare e per questo sono diventati eroi.