Nel 1990 Cattelan compra 500 copie del famoso magazine d’arte contemporanea Flash Art e sostituisce la copertina originale con una sua opera, assegnandosi da solo il frontespizio della prestigiosa rivista. Nel 1993 viene invitato a partecipare alla sua prima Biennale di Venezia e al posto di esporre una propria opera affitta lo spazio espositivo a un'agenzia pubblicitaria che lo utilizza per scopi commerciali. Poi c’è il Papa Giovanni Paolo II colpito da un asteroide, Hitler in preghiera, il saluto fascista con le dita mozzate in Piazza Affari, che tutti semplicemente chiamano “il medio” ma che Cattelan chiamò L.O.V.E. come acronimo di Libertà, Odio, Vendetta, Eternità. E poi ancora America, il famoso WC d’oro esposto a New York, e Comedian, la banana al muro.
Questo, e molto altro, è Maurizio Cattelan. 60 anni oggi. E se l’assoluta e irrinunciabile arte della provocazione è ciò che più di tutto lascerà alla storia, la sua strategia commerciale è quello che lo ha reso l’artista italiano vivente con le quotazioni di mercato più elevate. Genio e sregolatezza, no? Intelligenza economica e finissimo gusto artistico. Ma sarebbe troppo facile se Cattelan fosse tutto lì, dentro il prezzo di una banana mangiata.
“Ma questa è arte?” Ha chiesto una turista americana a suo marito davanti a L.O.V.E. nel centro del cuore di Milano. Io stavo scrivendo la tesi su di lui e ogni tanto, nei fine settimana, andavo a sedermi in piazza Affari per finire di leggere i saggi sul mercato dell’arte contemporanea, così quando mi si incrociavano gli occhi per i prezzi delle quotazioni potevo alzare la testa e ricordarmi il vero perché delle cose.
“Dare una sola forma all’arte è come darla all’amore” le rispose il marito. Non era una risposta romantica, era proprio una replica incazzata. E mi fece stare un gran bene. Perché l’arte non ha mai avuto una forma e pretendere di dargliene una è stato il grande errore di ogni generazione. L'errore dei critici bigotti, degli artisti noiosi, degli studenti annoiati, dei lettori passivi.
Ma se oggi - per i 60 anni del re della provocazione - dovessimo dare una forma alla sua storia, allora forse sarebbe quella di un 125 Sport. Come i timbri per fare i biscotti, Maurizio Cattelan dentro quel 125 ci starebbe alla perfezione. E a noi che con i motori ci siamo cresciuti, un po’ piace pensare che senza quel 125 Cattelan non sarebbe diventato Cattelan.
Il perché lo racconta il critico Francesco Bonami nella sua Autobiografia non autorizzata, ed è la storia di chi - nel bisogno di libertà - per la prima volta trova se stesso.
Entrai nella nebbia fitta della Pianura padana, umida ma finalmente profumata. Passai il confine dell’Emilia Romagna. Mi fermai a mangiare un panino con la mortadella. Quando ripartii, la nebbia si era diradata e cominciava a vedersi il paesaggio piatto attorno. La strada era vuota, ma appena passato il cartello di Vernasca il motore del mio 125 emise un gemito terribile e si spense. La moto tartagliò. Io misi in folle, corsi per qualche altra decina di metri. Poi mi fermai. Tentai di rimettere in moto, ma non ci fu nulla da fare. Il mio cavallo era stramazzato. Mi lasciai cadere anch’io sul bordo della strada, senza avere in mente nessuna idea alternativa che potesse risolvere quella situazione.
Il sole cominciava a riscaldare un po’. Ogni tanto passava un camion o una macchina. Mi venne in mente la mostra d’arte che avevo visto a Padova. Non sapevo nulla, eppure quello che mi veniva in mente in quel preciso momento, con due lire in tasca e la moto morta accanto a me, erano le opere di questo artista che si chiamava Pistoletto. Specchi con figure e oggetti. Ricordo che vedermi dentro un quadro riflesso, personaggio involontario e momentaneo di un’opera d’arte, mi fece una certa impressione. Mi era impossibile ricordare se la sensazione fosse di piacere o di curiosità. Eppure, sdraiato senza nulla da fare, nulla da sperare, nulla da guardare, fu quella sensazione che mi spinse a decidere che forse l’arte poteva anche diventare un lavoro, il lavoro che avrebbe potuto offrirmi l’opportunità di lavorare solo per me stesso.
L’unica arte che conoscevo era quella che avevo trovato su un volume della Storia dell’arte di Argan, che avevo comprato usato dopo aver visto la mostra degli specchi. In casa dei miei non si era mai parlato di arte. Non si ascoltava la musica se non quella che veniva fuori dalla radio sempre accesa, dalla mattina fino alla sera, anche quando a casa non c’era nessuno. «Per i ladri» diceva mia madre. Nessun ladro sarebbe mai venuto nel nostro palazzo, caso mai ci abitavano. Ma se per caso fossero venuti l’unica cosa di valore che avrebbero portato via sarebbe stata proprio la radio.
L’arte quindi non faceva parte del mio vocabolario. Eppure adesso, al bordo della carreggiata, qualcosa dentro mi stuzzicava l’appetito. Chiusi gli occhi, pensai a come poteva essere sentirsi artista. Pensavo che un musicista capisce di esserlo perché dentro sente la musica accesa come la radio a casa nostra. Ma un artista? Cosa può sentire dentro uno che deve fare delle cose? Per essere artisti, pensavo, bisogna essere capaci forse di vedere dentro di noi delle cose che fuori non ci sono, che non esistono. Ma il discorso non mi tornava, perché gli specchi che avevo visto con me stesso dentro esistevano di già, non li aveva mica inventati quel tizio lì. Che aveva fatto quel tizio, allora? Come aveva fatto a diventare artista? Non riuscivo proprio a capire. Ma più non capivo, più mi veniva voglia di fare l’artista. Non è che, mi chiedevo, uno diventa artista così, di colpo, senza saperlo? Si ferma la moto e uno scopre che deve fare l’artista.
Mi chiedevo come avesse capito che era un artista il signore degli specchi. Se avessi avuto il suo numero di telefono, alla prima cabina lo avrei chiamato e gli avrei chiesto: «Scusi, mi può dire quando esattamente lei ha deciso che era un artista o di fare l’artista?». Perché, in effetti, mi stavo chiedendo anche un’altra cosa: uno diventa o è artista? A me faceva più comodo credere che uno diventasse, scegliesse di fare l’artista. Perché io artista non mi sentivo proprio. L’unico gesto artistico che avevo compiuto era stato quello di fare i baffi con il pennarello alle statuette di sant’Antonio nella parrocchia in cui facevo il chierichetto ogni domenica. Quando il parroco lo scoprì, mi mandò a casa e non mi fece più fare il chierichetto. Fu la prima volta nella mia vita che fui licenziato. Quella sera a casa mia nessuno parlò durante la cena. Credo infatti che sotto sotto i miei genitori, Pierina e Paolo, sperassero che io diventassi prete, entrassi in seminario e gli togliessi ogni preoccupazione.
La vocazione. Mia madre sperava che io avessi la vocazione. L’espulsione dalla parrocchia mandò in fumo tutti i loro sogni. La vocazione. Ecco, forse essere artista è come diventare prete o monaco, bisogna avere la vocazione. Allora ero fregato. Perché di vocazione artistica, io lì per terra, sulla via di Vernasca, non ne sentivo nessuna. Altro che san Paolo, san Pirla, dicevo fra me e me. Eppure mi ritornava in mente la mia faccia che sembrava sbirciare da dietro le spalle delle due figure in bianco e nero disegnate sullo specchio. Ero stato un’opera d’arte, ma non potevo essere artista.