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Chadia canta l’inno
delle seconde generazioni,
ma la politica si è accorta
che "l’Italia è anche casa nostra”?

  • di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

16 dicembre 2023

Chadia canta l’inno  delle seconde generazioni,  ma la politica si è accorta  che "l’Italia è anche casa nostra”?
“Figli del deserto” è uscito ieri, anticipato da tre reel su Instagram. Un pezzo di due minuti attraverso cui Chadia si ripensa ripartendo dalle proprie origini e dalle proprie radici, perché da lì non si scappa. Analisi di un brano che potrebbe diventare un piccolo inno per i marocchini di seconda generazione. Tra retorica e verità, un urlo necessario. Se solo la nostra politica volesse ascoltarlo…

di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

Tre reel su Instragram, un sorriso nuovo e una consapevolezza ritrovata. Chadia Rodriguez, dalla Barriera di Milano, quartiere di Torino, esce con il nuovo “Figli del deserto”, brano-reset che ambisce a inquadrarla come voce identitaria dei marocchini di seconda generazione. Due minuti e solo qualche secondo in più, è il bignami di una rivendicazione. Legittima, forte, sincera. Più generica di quanto voglia apparire, forse. Più vittimistica di quanto voglia apparire, forse. Ma va bene così. Quantomeno lancia un messaggio chiaro – che può suonare come una promessa, una carezza o una minaccia a seconda delle orecchie che lo ascoltano – non solo ai “fratelli marocchini”, ma a tutto il nostro Paese, spesso rappresentato da una politica “adulta e istituzionale” che ama equivocare, trincerandosi dietro un’eterna prova di forza elettorale: immigrati preziosi e necessari per la crescita del Paese contro immigrati che invece questo Paese lo stanno affossando a colpi di illegalità e microcriminalità. Chadia, ovviamente, sente sulla pelle l’urto di questa seconda visione (al rogo l’immigrato usurpatore), tuttavia fingendo di non sapere che esiste anche – subdolamente tutelante – la prima visione (immigrato sempre vittima di razzismi di ogni sorta, mai tutelato…). “Figli del deserto” in due minuti non avrà il potere di liberarci dagli odiosi lacci di questa scaltra polarizzazione, ma prova ad affermare anche qualcos’altro. Il problema però è: la politica si è accorta che i ragazzi come Chadia hanno qualcosa di urgente da dire? Che non sono solo “figli di marocchini”?

Chadia Rodriguez Figli del deserto
Chadia Rodriguez

I tre reel di Instagram

I tre reel di Instagram che hanno anticipato l’uscita del nuovo pezzo (peraltro prodotto da Big Fish) hanno preparato il terreno. Tre video, tutti in bianco e nero, asciutti e ben girati, in cui Chadia spiega i suoi perché. Il primo ha come sottofondo gli strali leghisti e protoleghisti di quelle voci ben riconoscibili che da anni animano i talk tv (oltre a Matteo Salvini che citofona agli spacciatori spunta anche una vecchissima battuta di Pier Gianni Prosperini). Sul video passano, in slow motion e per contrasto, i volti di marocchini “qualsiasi” che ogni giorno portano a casa il pane con onestà e dignità. Negli altri reel parla Chadia, forse troppo didascalica, e qui sorgono gli eventuali problemi. Ci racconta di uno psicologo, evidentemente uno di quelli bravi, che le ha suggerito di ripartire dalle origini per domare rabbia e frustrazione. “Riparti dalle tue radici, perché da lì non si scappa”. Corretto. Poi Chadia ci dice che prima dei 18 anni le ha sbagliate tutte o quasi. Ha “spacciato, scippato e venduto foto del c*lo” per sopravvivere; il suo “vengo dalla strada”, in questo senso, non è il gingillo fake di uno cresciuto a Rione Monti, bensì la verità. Poi si incarta un po’: “No, non odiamo gli italiani, ma i pregiudizi, le paure e soprattutto chi le cavalca”. E ancora: “La mia fame, da adolescente, mi è costata il carcere, la comunità, dolore inflitto a me e alla mia famiglia, ora sono cresciuta e voglio essere la voce dei miei fratelli”. Si incarta perché se ha fatto il carcere per i motivi di cui sopra significa che un po’ di dolore lo avrà inflitto anche a qualche innocente sconosciuto, non solo alla propria famiglia. E allora il pre-giudizio c’entra fino a lì, perché lei, forse con meno colpe di quante la società voglia addebitarle, attraverso i suoi gesti è diventata soprattutto oggetto di giudizio, non solo di pregiudizio. Ce lo ricordava anche il crudo e nicciano “Rust” Cohle di “True detective” interpretato da Matthew McConaughey: ci piaccia o no siamo giudicati e giudichiamo ogni minuto della nostra vita, anche inconsapevolmente.

Chadia Rodriguez Figli del deserto
Chadia Rodriguez

Parte l’inno “noi figli del deserto siamo qua”

Parte l’attacco campionato dell’inno marocchino e inizia “Figli del deserto”. Il beat è sostenuto, con qualche accento “marcio” che lo eleva al di sopra dei beat iper-stilizzati di molti esangui trapperini. Chadia, bravissima, rappa convinta e spinge versi semplici ma ficcanti. Flow ultraclassico ma efficace, ché alla fine se vuoi parlare forte e chiaro è meglio tornare ai fondamentali e risparmiarci quei trick linguistici molto fighi che però alla fine ti lasciano al palo. Il brano traduce il senso dei reel social, ma rende tutto più scorrevole e meno didattico. In una solo frase, una vita e una prospettiva: “Noi figli del deserto siamo qua”. Veniamo da là – con tutto ciò che quel deserto comporta in termini di ricordi, riferimenti, abitudini –, ma adesso siamo qua. Semplice, no? Per nulla. Semplice per Chadia e i suoi, che questa cosa la sanno perché non l’hanno mai dovuta imparare; perché sangue e testa glielo ripetono ogni giorno. Complicato per una politica che ha avuto un paio di decenni abbondanti per capire, ma ha preferito – in buona parte – equivocare. Chissà, magari ascoltare una ragazza ventenne che parla di tombe, sofferenza e lavoro che ammazza con la stessa disinvoltura con cui una Chiara Ferragni blatera di pandori e beneficenza potrebbe costituire un gesto genuinamente rivoluzionario e davvero natalizio.

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