7 gennaio 2015 - 7 gennaio 2025. Sono trascorsi dieci anni dall'infame strage islamista di "Charlie Hebdo" a Parigi. Ricordo l'amico Georges Wolinski con affetto e gratitudine infiniti. Georges è stato il cuore di quel giornale. La prima volta che ho visto “Charlie Hebdo” è stato a Rennes, in Bretagna, nel 1971, ero allora un ragazzino comunista, di più, trotskista, il Sessantotto brillava ancora sui muri di Parigi e della Bretagna, dov’ero in vacanza. Mi hanno subito rapito i disegni che squillavano in prima pagina, figurine segnate a china veloce, pochi segni per prendere a calci in culo il mondo politico francese, cominciando dal generale De Gaulle, e, per estensione, l’intera rispettabilità ufficiale mondiale, i fascismi erano ancora in servizio permanente effettivo tra Spagna e Portogallo; le vignette erano firmate soprattutto da Wolinski e da Reiser, gli editorialisti a fumetti della testata. Reiser, volendo accennare al suo genio, è stato davvero un gigante della narrativa a fumetti, meno “politico” di Wolinski e dello stesso Cavanna, ha raccontato l’orrore delle vacanze in un album, ma anche piazzato al mondo della satira una messa dove al posto del crocifisso i fedeli adoravano un cavatappi: meraviglioso cortocircuito rispetto al paradosso del simbolico religioso. Nel 1971 De Gaulle era comunque morto da un anno, e “Charlie” avevano fatto in tempo a farsi censurare un titolo apparso blasfemo ai francesi dei più rispettabili residenti degli arrondissement: “Ballo tragico a Colombey, un morto”. Colombey-les-Deux-Églises era il ritiro ormai privato del generale, dove infine è stato sepolto sotto una grande croce di Lorena, simbolo della Resistenza contro i nazisti occupanti. In Francia, si sappia, anche i gradi borghesi e gli aristocratici hanno combattuto per la Liberazione dalle armate di Hitler, altra storia rispetto all’Italia che a suo modo custodisce ancora adesso Mussolini nel suo cuore provinciale. “Charlie” allora non era solo in quest’avventura, avanzava infatti insieme a un altro settimanale non meno “Bête et Méchant”, cioè brutto, sporco e cattivo, “Hara-Kiri”, dove l’imperdibile professor Choron spiegava nei suoi fotoromanzi come liberarsi, metti, dai neonazisti grazie a una squadra di ragazze nude e appassionate di karate, o ancora come risolvere la triste solitudine sessuale facendo in modo che, fuori dalla pratica solitaria della masturbazione, provvedessero altri, sia pure ignari, a forti godere: sarebbe bastato attaccare una mano di bambola al proprio pisello e fingersi cieco e in possesso di un solo arto, proprio lì; infine, spiegava sempre Choron, “l’eiaculazione avviene dentro la mano di plastica e basterà sciacquarla per il riuso”. Detto in breve, “Charlie Hebdo” lavorava per il trionfo di bizzarro un anarco-comunismo liberatorio e soprattutto sessuale, senza dimenticare la denuncia politica e civile. Esiste altrettanto, infatti, una copertina di Wolinski che denuncia le esecuzioni dei militanti antifranchisti di Burgos nella Spagna del Caudillo: un grande pene che reca scritto sui testicoli: “Franco Assassino”, quanto al titolo: “Ecco il tatuaggio alla moda!”.
Nessun altro paese ha mai conosciuto una simile capacità sarcastica così sinfonicamente liberatoria. Sia chiaro: una capacità conquistata in nome dei principi della laicità, la stessa che porterà il giornale a titolare “Wolinski ha scelto di morire idiota” quando questi, proprio l’amorale Georges scelse di diventare vignettista ufficiale de l’Humanité, il giornale dei comunisti francesi, gli stessi che, negli anni Cinquanta, avevano criticato Picasso per un ritratto di Stalin ritenuto per nulla “ortodosso”, anzi, poco rispettoso dell’ortodossia iconica del cosiddetto realismo socialista. Se ancora adesso provi a scorrere su eBay la voce “Charlie”, accanto alle annate storiche, agli albi di Wolinski, di Reiser, di Choron, di Willem, Siné, Cabu, Riss, Gebé, Fred e dello stesso Roland Topor, ti imbatti soprattutto nei numeri dell’eccidio, l’annata 2015, il giornale che titolava “Tout est pardonné”, per esempio. Inizialmente la base d’acquisto indicava il costo di 5 mila euro, per non dire della copia uscita il giorno dell’eccidio, con Houellebecq ubriaco dell’imminente successo editoriale anti-islamista in copertina. “Siamo tutti Charlie” era lo striscione dietro al quale avanzava la “marcia repubblicana” all’indomani del massacro. Dieci anni dopo si è forse persa memoria del lutto, la condanna sembra essere più sfumata. In ogni caso, l’attuale redazione di “Charlie” si trova in un luogo segreto. Tuttavia “Charlie” non può essere ricondotto alle ultime stagioni nelle quali, mantenendo fermi i principi della laicità, del sarcasmo e del riso demolitore ironizzava spietatamente, felicemente, laicamente sull’Islam e il suo profeta Maometto, così come aveva già fatto già con tutti i papi cattolico, i rabbini, i CSR, cioè la celere francese, e perfino il figlio di De Gaulle: “Tutto il ritratto di sua madre”. E ancora nessuno potrà mai dimenticare molti altri titoli, non meno felicemente spietati, perfino contro le femministe: “Le donne sono cani”, e ecco una ragazza al guinzaglio portata a orinare sotto il marciapiede da un rispettabile monsieur Dupont.
Soltanto un paese dove talvolta perfino la satira sovente è organica – pensate all’Italia, pensate al caso dei vignettisti virtuosi “di sinistra” – può provare meraviglia per la sconfinata capacità di iconoclastia di “Charlie”. Quando il giornale scelse di sostenere la candidatura del comico Coluche alle presidenziali del 1981, volle accludere a ogni numero una piccola busta di plastica contenente una sostanza gelatinosa: “Vero sperma di Coluche, per avere dei figli stupidi e cattivi”, in ossequio al motto della testata. Quanto allo slogan, anzi, all’appello pro Coluche c’era modo di leggere: “Tutti insieme per incularli. Con Coluche”. Per l’occasione “Hara Kiri”, il magazine “compagno di strada”, se non cobelligerante”, fece davvero la parte del leone ipotizzando in un titolo una “tassa per i cazzi grossi”. E ancora quell’altro dedicato, nel 1980, al tricolore italiano nel clima delle Brigate rosse: “Verde di paura, bianco di rabbia, rosso di sangue”, e poi nuovamente Wolinski che apre sulla giornata della memoria “Io rapo la mia donna ogni 8 maggio”, il riferimento era alle donne collaborazioniste amanti dei militari tedeschi esibite senza più capelli dagli uomini del maquis nelle strade di Parigi. Infine, nel 2002, “Dio, premio Nobel per la guerra”. Per festeggiare invece il Natale 1978: “È nato Gesù, un disoccupato in più”. Oppure nel 1975, a guerra del Vietnam appena conclusa: “Adottate una prostituta di Saigon”. Era il 2 settembre 2016, quando dopo il terremoto di Amatrice, 298 vittime, “Charlie” ironizza sulla tenuta sismica degli edifici citando le lasagne, di fronte alla minaccia di querele da parte del sindaco della cittadina italiana, la fumettista autrice della vignetta, Coco, risponde prontamente sulla pagina Facebook della rivista: “Italiani… Non è Charlie Hebdo che costruisce le vostre case, è la mafia!”. Ridurre la storia di “Charlie Hebdo”, l’ho già detto, alle ultime sue settimane, ai suoi poveri artisti, disegnatori e giornalisti, morti innocenti, alla pressione psicologia che subiscono i suoi sopravvissuti, Luz per primo, dopo l’assassinio di Wolinski, Charb, Cabu, Tignous, Honoré, Bernard Maris e di tutti gli altri, significherebbe, perfino dieci anni dopo, dimenticare il pescaggio di memoria che il giornale ha consegnato nel tempo a chi non ha atteso il 7 gennaio del 2015 per scoprirne l’esistenza. Una felicità laica che innalza la gioia di chi è certo di non avere né Dio né padroni. Quanto a Georges Wolinski, personalmente non avrò mai sufficienti parole d’affetto e di amicizia da dedicargli. Per la sua gentilezza poetica che brilla ancora adesso per intero nel manifesto realizzato per la Festa de l’Humanité del 1978: “Lo senti il canto degli uomini?”, così chiede la madre, e l’uccellino: “Sì, mi piace”. Come diceva proprio Wolinski parlando con il suo amico ospite italiano: “In Francia non crediamo alle menzogne della religione”. Ora e sempre “Charlie”!