William Gibson, insieme a Bruce Sterling uno dei papà del cyberpunk, ha settantasei anni. Bruce Sterling, invece, settanta. Erano considerati i più visionari e rockeggianti, tra gli autori di fantascienza. Quelli che in qualche modo si sono immaginati internet, i social, i cambiamenti climatici e buona parte di quel che stiamo vivendo assai prima che cominciassimo a viverlo, altro che Simpson. Ancora oggi a pensare a Mozart con gli occhiali da sole, feticcio della antologia che quel movimento sgangherato presentava ho un sussulto. Del resto, fosse ancora vivo, anche David Bowie, l’uomo che cadde sulla Terra, avrebbe settantasette anni. Come anche ne avrebbe avuti settantasette Kathy Acker, morta assai più giovane del suo coetaneo cantante. Invece Sid Vicious, sempre per farsi male, sessantasette. Ci ho sempre scherzato su con mia suocera su questa faccenda di essere praticamente coetanea di Bowie, anche se più spesso mi sono ritrovato a scherzare su Steven Tyler, incidentalmente nato nove giorni dopo di William Gibson. Ancora pochi giorni, per la precisione dodici, e sarebbe nato Florian Schneider, insieme a Ralf Hütter fondatore dei Kraftwerk. I Kraftwerk, Dio santo, i robot, le sequenze di synth, la musica fatta da e con le macchine, il futuro. Ecco, l’idea che chi, in qualche modo, ci ha raccontato il futuro, non quello lontano, le astronavi, Marte, roba che si è dimostrata e dimostra ancora oggi assai fantasiosa e distante, ma quello che in qualche modo ci stiamo ritrovando a vivere, giusto un attimo prima che arrivasse, forse contribuendo a farlo arrivare, sia oggi anziana. E che se anziana non è solo perché la morte li ha portati via troppo presto, il dopo guerra a sancire in qualche modo la loro linea di partenza, mi inquieta. E mi inquieta perché a mia volta sono invecchiato, condizione di per sé buona, se non si invecchia tendenzialmente è perché si è morti, ma che se si vive e si vive intensamente è capace di spiazzare e lasciare quasi attoniti, o quantomeno sorpresi. Anche l’idea che chi ci ha raccontato il presente come nessun altro sia in realtà ormai in età da pensione inquieta. Douglas Coupland è del 1961, Viktor Pelevin, come David Foster Wallace, del 1962, William T. Vollmann addirittura del 1959, come Neal Stephenson, anche questa è faccenda che inquieta. Ma forse a inquietarmi, sono del 1969, è che sono io stesso a essere invecchiato, così, mentre, per dirla con John Lennon, stavo facendo altro. Potrei anche guardare alla cosa da un altro punto di vista, forse ancora più inquietante. Nel giorno di Natale, tra un mese esatto mentre sto scrivendo queste parole, compirà settant’anni Annie Lennox, storica voce degli Eurythmics. Col suo sguardo di ghiaccio, i suoi look androgini, la sua voce profonda e potente, la loro musica al tempo stesso così pop e così alternativa Annie Lennox credo sia stata la prima donna per la quale io abbia provato coscientemente attrazione. Chiaro, mia madre ci tiene sempre, o almeno ci teneva sempre, è da un po’ che non glielo sento più raccontare, di come io, ancora neanche tre anni compiuti, abbia fatto un disegnino, che lei ha ancora protetto da una qualche cornice, lì in casa dei miei genitori in Ancona, che rappresenta una piuttosto basica Raffaella Carrà.
Ci sono tutte quelle caratteristiche che fanno di un disegnino fatto da un bambino un disegnino fatto da un bambino: la testa gigantesca, sghemba, il corpo che occupa buona parte della scena. Le braccia e le gambe fatte con delle linee alle cui estremità si trovano mani e piedi composti da cerchi ovoidali, cinque linee più sottili a fare da dita. I capelli composti da altre righe. Nel viso, ca va sans dire, occhi, naso e bocca tratteggiati grossolanamente. Niente di così significativo, non fosse che io, neanche tre anni compiuti, abbia deciso di segnare lì, nella parte tozza del corpo, l’ombelico, che lei, Raffaella Carrà, spudoratamente esibiva dentro le televisioni degli italiani. Un ombelico considerato, siamo ne 1972, qualcosa di particolarmente sexy, forse addirittura oltraggioso. Un azzardo di cui si arriverà a parlare anche in Parlamento. Il fatto che io, neanche tre anni compiuti, mia madre ha anche segnato la data in quel disegno, vai poi a capire perché, abbia notato quel dettaglio attesta, forse, che è stata Raffaella Carrà la prima donna a avermi colpito da un punto di vista dell’attrazione, anche se io ho sempre individuato in Annie Lennox quell’epifania. Ecco, sapere che chi ha incarnato il prodromo dell’attrazione sessuale compia settant’anni è qualcosa di spiazzante. Parecchio. Volendo essere cinici, sono pur sempre stato un ragazzino negli anni Ottanta, posso anche provare a rendere il discorso un po’ meno intellettuale, e fugando l’idea che fossi tra quanti erano attratti dall’allora regina indiscussa dei film sexy all’italiana, Edwige Fenech, non mi ha mai particolarmente colpito la sua corporeità, potrei assolutamente dire che vedere, di tanto in tanto, dentro la tv tale Nadia Cassini, soubrette americana che imperversava dentro certa nostra televisione facendo sfoggio di un culo stratosferico. Nei fatti ho raramente avuto occasione di vedere certi programmi, immagino per una forma preventiva di censura da parte dei miei genitori, però le varie Sidney Rome con quell’aria svagata e le sue magliette bagnate, Minnie Minoprio, con quella cascata di capelli riccioli, e, appunto, Nadia Cassini e il suo culo stratosferico me le ricordo bene, e suppongo abbiano non solo incarnato ma anche influenzato una certa mia visione del mondo. Oggi Nadia Cassini, di cui da lungo tempo ho perso ovviamente le tracce, ha settantacinque anni, settantasei il prossimo 2 gennaio, mentre, neanche a dirlo, Edwige Fenech è coetanea dei vari Gibson e compagnia bella, classe 1948. Non essere gerontofili, così vengono chiamati patologicamente coloro che provano pulsioni verso persone della terza età, e scoprire che chi è stata oggetto o soggetto delle prime fantasie sessuali è oggi una donna anziana lascia spiazzati. Del resto c’è chi ancora oggi va oltre. Non leggete queste parole come sentenza di un giudizio morale, semmai come residuo di quell’educazione rigidamente cattolica cui ogni tanto mi trovo a far riferimento da parte dei miei genitori. Del resto, dicevo, ancora oggi c’è chi va oltre, andando a guardare video o immagini porno che hanno per protagoniste persone ormai morte, la più immaginifica a tal proposito suppongo sia Moana Pozzi. Il tutto, credo, senza scivolare nella necrofilia, ci mancherebbe altro, che è invece la patologia di chi ha pulsioni sessuali mosse dai cadaveri. Ci pensavo tempo fa quando mi è capitato, per una delle mie ricerche, di finire in una schermata di "Google Immagini" che ritraeva, in buona parte, foto porno di Lilli Carati, protagonista dell’Avere vent’anni di Fernando Di Leo insieme a Gloria Guida, altre attrice che ha solleticato le fantasie di non pochi miei coetanei, e poi passata al porno, morta a neanche sessant’anni nel 2014. Aprire qui e ora un discorso su come le immagini, statiche come quelle delle foto, o in movimento come quelle dei video, diventino altro da chi quelle immagini hanno contribuito a creare, pretenderebbe troppe energie, e soprattutto sposterebbe decisamente altrove il discorso, come sempre non troppo lineare già di suo.
In realtà ad accendere in me questi pensiero cupi, oscuri, sul passare del tempo, e su come a volte il futuro ce lo siamo bellamente lasciati alle spalle, è stato un messaggio su Whatsapp, ricevuto da mia figlia Lucia, e spedito da mia madre. Di per sé niente di allarmante, credo anzi si tratti di uno di quei messaggi che girano, cioè che uno riceve e a sua volta inoltra a altri suoi contatti, non come una catena di Sant’Antonio, semplicemente per mettere in circolo delle belle parole. Parole, nello specifico, a firma Jim Morrison. Ora, lungi da me specificare che Jim Morrison, oggi, avrebbe ottantuno anni, è morto da troppo tempo e continuare a fare questi calcoli non credo mi porterà da nessuna parte. Quel che mi ha colpito, e neanche poco, è come oggi, nel 2024, sia plausibile che mia madre, classe 1937, usi Whatsapp per dialogare quotidianamente o quasi con mia figlia, classe 2001, quattrocentotrenta chilometri circa di distanza tra loro, e lo faccia anche usando le parole di Jim Morrison, artista che fiché era in vita dubito abbia mai sentito nominare, e che forse non ha mai sentito nominare neanche oggi, condividere un messaggio non implica certo la conoscenza dell’autore del medesimo. Tempo fa, per dire, mia suocera ha girato in un gruppo di famiglia che abbiamo gli auguri di buona Pasqua con tanto di fiori rossi, uova cinte da fili d’oro e una firma, da qualche parte, che recitava By Giulia. Chi fosse questa Giulia non è dato sapere, probabilmente neanche un contatto diretta di mia suocere, ma quello di un qualche suo contatto. Jim Morrison, come quella Giulia, firma in calce a un messaggio irrilevante ai fini di questo mio scrivere, The Doors quanto di più distante mi possa venire in mente pensando a mia madre. Al punto che non mi sorprenderebbe se un giorno scoprissi, che so, che mia madre ha girato a mia figlia anche una poesia di Bukowksi, o una qualche massima di Oscar Wilde, tutta gente ben lontana dal suo immaginario. Questo a meno che non si voglia appunto pensare che, col passare del tempo, certi immaginari prendano tutt’altro corpo, le parole poeticamente maledette di un Jim Morrison lette come semplicemente poetiche da mia madre al pari degli scenari cyberpunk o postmoderni di un Gibson o di un Coupland oggi quasi trasformati in mera cronaca, sorvolo sul culo della settantacinquenne Nadia Cassini.
Del resto, chi lo avrebbe mai potuto anche solo supporre, proprio mentre scrivevo le parole che avete appena letto, sempre che crediate che un pezzo così complesso come questo, solo in apparenza sviluppato come un flusso di coscienza, sia cominciato e finito nel medesimo tempo che voi avete impiegato per leggerlo (e anche qui, sempre che io debba necessariamente credere che chi mi legge lo fa dedicando alla lettura un tempo sufficiente per leggere un pezzo così complesso e lungo il tot di tempo necessario a farlo in una sola sessione, e che magari non vi dedichi qualche minuto alla volta, magari mentre se ne sta seduto sulla tazza del cesso, o in un’andata e ritorno verso e dal lavoro, in metropolitana). ?Proprio mentre scrivevo le parole che avete appena letto, dicevo, del resto, sono andato a ripassare con la mente, prima, e con le orecchie, poi, alcune delle canzoni dei nomi che ho fugacemente citato, quindi "I got a life", vero concentrato di energia vitale, degli Eurythmics. E ancora "Lazarus", "We Are We Now", "I’m Afraid of Americans", tutte di Bowie, quest’ultima con tanto di inquietantissimo Trent Reznor, produttore del brano, a inseguire il povero David in giro per le strade di New York. Me lo sono andato a vedere in video, sì. "What It Takes" degli Aerosmith, con pure un passaggio nella versione corale di Perfect Day di Lou Reed, non menzionato in questo scritto, ma ricercato per una malinconica presenza del solito Bowie tra gli ospiti, l’idea che l’artista inglese abbia in qualche modo messo in scena la sua morte, con "Blackstar" e il brano "Lazarus", audio e video, mi ha sempre lasciato incantato, seppur in una sorta di incantamento inquieto. Per poi arrivare a un passaggio quasi violento tra passato e futuro, o quantomeno tra passato e presente, nel momento in cui sono passato da quella che considero, senza paura di smentita, una delle più belle canzoni di tutti i tempi, "Love Song for a Vampire" di Annie Lennox. Anno 1993, scritta e cantata per la colonna sonora del film "Dracula" di Bram Stoker, di Francis Ford Coppola, in qualche modo mashuppato, con "Vampire" della giovanissima Olivia Rodrigo, a mio modo di vedere altrettanto incantevole, per quel suo mescolare leggerezza e inquietudine. Lì il parallelo tra un amore tossico che risucchia la vita come un vampiro il sangue, è sorretto da una prima parte della canzone pensata come una ballad per pianoforte, per poi aprirsi nella seconda metà a una cassa dritta molto enfatica, quasi da musical. Proprio in queste ore è morta Concetta, la mamma dello scrittore bolognese Danilo Masotti, famoso per aver in qualche modo fermato a futura memoria gli Umarell. Da tempo ricoverata, persa nel suo mondo a causa di un’età decisamente avanzata, Concettella, come la chiamavano, è morta a novantaquattro anni. Suo figlio l’ha raccontata con grande delicatezza e affetto sui social, andandola a presentare ai suoi follower attraverso tutta una lunga serie di video nel corso degli anni, facendola diventare familiare a tanti di noi. Proprio pochi giorni fa era andata da lei anche il comico Paolo Ruffini, che aveva chiacchierato con lei in un video intriso di estrema poesia e dolcezza. In quel video forse la frase più iconica, che brutta parola, è stata quella nella quale, rispondendo alla domanda di Ruffini, cosa preferisci tra passato, presente e futuro, Concettella ha detto “il presente è sempre il futuro”. Concetto non troppo diverso da quello espresso sul palco del Vanity Fair Story da Giovanni Allevi giusto ieri, quando parlando di come il tumore che lo ha colpito ormai tre anni fa e che tuttora non se n’è andato, lo abbia spinto a guardare la vita in maniera diversa. Quasi alla maniera degli stoici, quindi pensando decisamente più all’oggi che al domani, al qui e ora rispetto a un ipotetico futuro di cui non solo non abbiamo certezza, ma forse neanche vaga idea. Ecco, a volte ho idea che il futuro, proprio come l’amore tossico di Olivia Rodrigo, classe 2003, ci affondi i denti sul collo come un vampiro, togliendoci tutto il sangue con tutte quelle aspettative che spesso, se ci fermiamo a guardi poi alle spalle, finiamo per faticare anche solo a ricordarcele. Sarà mica un caso che è proprio col verbo addentare che Enrico Ruggeri, sessantasette anni compiuti a giugno, apre il brano Il futuro è un’ipotesi, anno del Signore 1985, saranno quarant’anni l’anno prossimo. “Ti ho vista addentare un panino in un autogrill/ a volte un dettaglio può uccidere una poesia”, cantava il cantautore milanese, primo a portare il punk in Italia, in un’idea di punkitudine che flirta con certo cantautorato come solo Elvis Costello, in Inghilterra. Ecco, il futuro nel 1985 era un’ipotesi, oggi è un vampiro, o per dirla con la voce stentata di Stefania Sandrelli in "Parthenope" di Paolo Sorrentino, Stefania Sandrelli che nello stesso giorno in cui compie gli anni Ruggeri ha festaggiato il suo settantottesimo compleanno: “Forse è stato meraviglioso essere ragazzi… ma è durato poco”.