Anche fosse che Paolo Sorrentino in Parthenope ha fatto ricorso a immagini stereotipate di Napoli; anche fosse che il quartiere povero di quella città, raccolto intorno al ricco criminale, sia la semplificazione in un’immagine di un contesto molto più sfaccettato. E se anche fosse un’invettiva (in realtà solo presunta) quella lanciata da Greta Cool, interpretata da Luisa Ranieri, contro i napoletani “orrendi, arretrati e piagnucolosi”, dov’è il problema? Il film di Sorrentino non può essere limitato a una critica nei confronti della sua città. C’è di più, ovviamente: il mito, la bellezza inarrivabile, il desiderio e il suo oggetto (o il soggetto - Parthenope appunto) che non si toccano mai se non per pochi istanti, la giovinezza sufficientemente leggera per essere gustata. E il suo epilogo nella vecchiaia. Perché, dunque, ridurre tutto alla pedanteria di un rimprovero: “Napoli è così, ma potrebbe essere meglio”. Per fortuna, dicevamo, c’è di più. La cosa che sorprende è proprio la sorpresa di chi ha ascoltato quelle parole con il loro sottinteso: “Ma come si permette, quel Sorrentino?”. Una reazione che però, di fatto, non tiene conto di tutto ciò che il regista ha messo in scena nel suo film. Lo stesso regista, peraltro, che con È stata la mano di Dio aveva già dimostrato l’amore per Napoli.
Quand’è che uno stereotipo diventa pericoloso? Quando moltiplica se stesso, diventando l’unica immagine di una minoranza, di una città, di un popolo. Una comunità ridotta a un’approssimazione offensiva. In Parthenope, però, simili espedienti sono usati per necessità di narrazione, per la logica interna al film. Basti pensare ai capolavori di Martin Scorsese o Francis Ford Coppola e alla rappresentazione le comunità italo-americane negli Stati Uniti. Tipi, più che stereotipi. Poi c’è la questione dell’offesa contenuta nel monologo di Luisa Ranieri. Parthenope appartiene prima di tutto al suo regista: quelle parole, anche se dure, sono dunque senz’altro legittime. Ma, di nuovo, non sono tutto il film, bensì una sua singola (breve) parte. E certamente ciò che rimane negli occhi non è “l’anti-napoletanità” dell’opera. La miopia sciocca di chi considera il cinema una sorta di appendice del ministero del Turismo, una buona pubblicità per attirare curiosi e clienti, impedisce di salvaguardare ciò che del cinema è invece il presupposto: la libertà di chi lo pensa. Insomma, Sorrentino non deve niente né alla sua città, né al pubblico. Altrimenti, oltre a perdersi la bellezza del film, si finisce per fare un torto non solo al regista, ma anche alla propria intelligenza.