Se Parthenope fosse stata una conferenza, un incontro o un saggio accademico (e non un film) sarebbe stato più facile per noi parlarvene. Avremmo gridato alla perfezione immediatamente, tanti sono i temi, le parentesi, le nostalgie che vivono dentro di esso. Questo film (ha spiegato Paolo Sorrentino in un’intervista pubblicata su Rolling Stone): “Era un guardarsi indietro per capire come alla mia età si può ancora guardare avanti”. E in effetti dopo averlo visto in sala, letto decine e decine di recensioni, interviste, seguito l’incontro del Premio Oscar da Tintoria, abbiamo compreso meglio quale fosse l’intento del regista. Vedersi dentro Parthenope e così recuperare una parte del suo passato. Parthenope è una donna (Celeste Dalla Porta) e una città (Napoli). E noi seguiamo le vicende della sua vita attraverso i decenni, dagli anni Cinquanta ai giorni nostri, tra Capri e Napoli. Se nella prima e affascinantissima parte, Sorrentino ci mostra “questi giovani - protagonisti - che cercano il tragico” (interpretati da Daniele Rienzo, Celeste Dalla Porta e Dario Aita), uno strano gioco di seduzione e di morte, come fossero loro degli Dei giunti a braccia conserte da un tempo passato, nella più confusa seconda vediamo la protagonista impegnata nella ricerca della sua stessa identità, con una "maternità che la insegue dappertutto", barcamenarsi tra lo studio e la presunta passione per la recitazione. E in mezzo ci finisce, in uno strano gioco delle parti, ancora la Chiesa (e il sesso, naturalmente).
Parthenope è una donna, un enigma, una città. Tra i nodi irrisolti, emerge una verità dolorosa nei tanti momenti che abbiamo trascorso da soli con la protagonista e il suo sguardo perso in una direzione ignota. Per oltre due ore in sala attendiamo una rivelazione: un monologo, un segnale, un'epifania, qualcosa che ci sveli davvero chi è Parthenope. Ma quel momento non arriva mai. Per questo motivo, più che la storia di una persona sfuggente, Parthenope sembra il racconto di una donna normale dall'accecante bellezza che fa i conti con il mondo feroce. In cui tutti la vogliono, la desiderano, ma per poco tempo, perché "la bellezza stanca", come dice Floria Malva (Isabella Ferrari). Eppure intuiamo che lei, Parthenope, non sia soltanto bella, ma anche intelligente, sarcastica e piena di vita. La verità è che avremmo soltanto voluto conoscerla (meglio).
Quel che è certo è che Sorrentino con Parthenope ci insegna una verità scomoda della nostra società, ossia che “le donne belle vengono offese” e in un certo qual senso non piacciono a nessuno. Né agli uomini che desiderano di possederle né alle donne che ne invidiano le qualità. Insomma, Parthenope è un film difficilissimo con la (solita) straordinaria fotografia a cura di Daria D’Antonio. Tutto è indefinibile (che il bello sia forse questo?). Risulta persino più complicato da decifrare del mito non mito di Napoli racchiuso nel monologo di Greta Cool (Luisa Ranieri). Ed è la più dolceamara delle conclusioni per l'ultimo film di Paolo Sorrentino che poteva essere un capolavoro, ma ha deciso di fermarsi prima.