Flavio Furno è alla Festa del cinema di Roma per presentare il film Marko Polo di Elisa Fuksas. Come riassumerlo? Beh, impossibile. È una storia sul fallimento, sulle certezze che svaniscono, le speranze che s’annebbiano. Marko Polo è prima di tutto un film su un film che non si farà mai, e proprio la consapevolezza che non vedrà mai la luce mette tutti i protagonisti di questo racconto in uno stato di crisi totale. Con Furno, che soltanto nell’ultimo anno e mezzo è stato protagonista nella serie Marconi - L’uomo che ha connesso il mondo di Pellegrini, lo abbiamo visto ne Il sol dell’avvenire di Nanni Moretti e nella serie tv Il nostro generale, ci siamo guardati un po’ meglio dentro il vuoto e il peso delle aspettative che ci divora. E per la durata di una veloce intervista abbiamo cercato di capire, prendendo in prestito la battuta del film di Fuksas, in che senso e in che modo “successo e fallimento (a volte) possono essere la stessa cosa”.
Flavio, sei alla Festa del Cinema di Roma per Marko Polo di Elisa Fuksas, un film su un film che non si farà mai, ci spieghi bene la trama e il tuo personaggio?
È un plot abbastanza complesso. Il mio personaggio è l'attore che avrebbe dovuto fare il film di finzione che è naufragato e che, non accettando questo lutto - sai, gli attori hanno bisogno di essere visti da qualcuno, quindi di avere uno scopo - parte insieme a questo gruppo che sembra una sorta di Mago di Oz post-moderno per cercare di capire come fare per risolvere questa crisi. Crisi che nella protagonista e regista Elisa coincide anche con una crisi spirituale, con la fede, e invece nel caso di questo attore, che interpreto io, con una crisi identitaria. Cioè senza questo ruolo, visto che il film che si doveva fare non si farà più, senza questa interpretazione che gli era stata promessa, è costretto a vivere la sua vita di tutti i giorni. Per questo motivo per buona parte del film indosso una maschera meravigliosa realizzata dallo studio Fuksas, ancestrale, comica a suo modo, ma anche un po' tragicomica, direi, perché il mio personaggio non vuole far vedere la sua faccia, non si piace.
Ci descrivi questo personaggio con tre aggettivi?
Con tre aggettivi è difficilissimo. Il primo è mascherato, il secondo è in crisi e il terzo è ironico. Mi fermo qui.
A proposito di maschere, oltre alle serie tv, ai film, hai fatto anche tanto teatro. Sergio Rubini definisce il palcoscenico, quindi il teatro, uno spazio di libertà e di ricerca. È così anche per te?
Si, assolutamente. Ma io direi che per me vale lo stesso discorso anche per il set televisivo / cinematografico. Ovviamente sono spazi differenti per cui i testi che ti puoi permettere di veicolare sono diversi, il codice stesso cambia, ma per me la ricerca e la libertà c'è anche davanti alla macchina da presa. Ovviamente, concordo, anche il teatro non è che è un luogo, come dire, anarchico. Esistono delle regole ben convenzionate, esiste una regia, esiste uno spazio ben definito, quindi forse estenderei il concetto all'arte in generale. L'arte quando è fatta bene, è un luogo di ricerca e di libertà. Se non c'è questa cosa, non è arte.
Marko Polo è proprio un film di ricerca, di libertà, di una o più identità smarrite. C'è una battuta che mi ha colpito molto del film. "Quando ti succede di fallire ti ritrovi a chiederti in che modo successo e fallimento possano essere la stessa cosa".
Penso che tra i vari messaggi del film sia quello più rivoluzionario e semplice allo stesso tempo. Io ed Elisa, con pochissime parole, ci siamo ritrovati in un momento della nostra vita in cui coincidevano un po' le nostre urgenze. Questa è la cosa di cui vado più orgoglioso perché quando ho visto il film per la prima volta in sala e mi sono reso conto che aver beccato la cifra giusta senza esserci così tanto confrontati prima vuol dire che tra di noi abbiamo comunicato più di quanto ci siamo poi effettivamente parlati. Il punto è che noi siamo abituati a considerare il successo e il fallimento come qualcosa che stabiliscono gli altri. Condizionati dal mondo esterno, per cui io mi sento fallito, o credo di avere successo se per le persone che mi guardano io ho raggiunto determinati risultati. Eppure la grande conclusione è che il successo e il fallimento sono due concetti personali.
Cioè?
Il punto è proprio questo: soffriamo della malattia del successo e del fallimento perché pensiamo che ci siano degli standard da raggiungere. Eppure la vera rivoluzione, soprattutto quando si arriva a una certa età e si ha alle spalle un certo numero di esperienze, è capire che il successo e il fallimento non devono essere definiti da qualcosa di esterno a noi, ma da noi stessi. Per esempio durante il percorso, possiamo fermarci a riflettere se le motivazioni che ci hanno spinto a intraprendere questa strada vent'anni fa siano ancora valide oggi. Tuttavia, credo fermamente che se dobbiamo fallire, dobbiamo farlo in modo consapevole e trasformare quel fallimento in un'opportunità per riconsiderare se il nostro obiettivo non debba cambiare forma. Forse il nostro scopo non era quello che pensavamo, ma qualcos'altro. E questo film è la prova tangibile di come da un film che non si è mai fatto è nato un film completamente diverso, ma comunque di valore. Un valore non solo artistico, ma quasi filosofico. È un fallimento? È un successo? Il film poteva non esserci, eppure esiste, è qui.