Nello spazio MOW da MBU abbiamo intervistato Sofia Panizzi. Classe 1997, Sofia è un’attrice di teatro, cinema e televisione che ha esordito giovanissima sui set de I Cesaroni e Che Dio ci aiuti 3, fino a ottenere ruoli significativi in film come Chiara Lubich e Come fai sbagli. Il 2023 è stato il suo anno sul grande schermo. Saverio Costanzo e Ginevra Elkann la scelgono per entrare a far parte del cast dei loro film. Ora però Sofia torna a teatro. Per la stagione 2024/2025, sarà protagonista di Aggiungi un posto a tavola al Teatro Brancaccio di Roma, interpretando il ruolo di Clementina in una produzione che celebra il cinquantenario della storica commedia musicale di Garinei e Giovannini, affiancata da Lorella Cuccarini e Giovanni Scifoni. Ecco l'intervista esclusiva all'attrice che ai microfoni di MOW ha regalato l'emozione di chi, in un certo senso, è all'inizio della propria carriera (già ricca di successi) e vuole prendersi il mondo. Con quell'energia e quella voglia di fare, creare, vivere d'arte che forse avevamo dimenticato.
Ciao Sofia, cosa ti ha avvicinato al mondo della recitazione?
È nato tutto un po’ per caso, perché in realtà non sono stata io a prendere l’iniziativa, nonostante il palcoscenico mi avesse sempre attirata. Mia sorella doveva partecipare a uno spettacolo teatrale a scuola, e mia madre mi disse: "Se ti è piaciuto così tanto, magari vuoi seguire un corso di recitazione." Così, per caso, ho accompagnato mia madre a informarsi su questo corso e lì ho scoperto che oltre a recitazione c'era anche un corso di musical. La mia prima passione è stata proprio il musical, perché fin da bambina amavo cantare e ballare. Tuttavia, con il tempo, la recitazione ha preso il sopravvento e si è trasformata nella mia vocazione principale, tutto è partito da quello spettacolo di mia sorella a scuola.
Hai studiato all'Accademia Silvio D'Amico. Qual è stato l'insegnamento che porti con te ancora oggi a distanza di anni?
Sono tante le cose che mi hanno arricchito. Prima di tutto, sono molto grata di aver frequentato l'Accademia, o comunque di aver studiato lì, perché il contesto in cui ti trovi è già di per sé un insegnamento, soprattutto sul piano umano. Lavorare in gruppo, affrontare una sana competizione, dove vedere un compagno eccellere ti spinge a voler raggiungere quei risultati. Dal punto di vista tecnico, all’inizio si tende a pensare solo a se stessi: come appaio quando dico una battuta, come suona la mia voce, come mi muovo. Questo è un pensiero comune, e anch’io a 19 anni, quando sono entrata in Accademia, facevo questo errore. Ma in realtà, questa è la parte più ingannevole del lavoro. La vera essenza sta nel capire dove ti trovi, con chi stai interagendo, cosa vuoi da quella persona e come comunichi il tuo desiderio. È da qui che nasce un'interpretazione più autentica e naturale, molto più di quanto immaginiamo all'inizio del percorso. Quando si è alle prime armi, spesso si recita in modo superficiale, come se tutto fosse solo una questione di tono o intenzione, senza una reale profondità. Il vero insegnamento, però, è ricordarsi che la chiave sta nel capire il contesto: non importa tanto come dici qualcosa o come appari, ma cosa vuoi ottenere e come arrivi a farlo, battuta dopo battuta. Questo è un promemoria costante che devo tenere a mente ogni volta.
Negli anni '80-'90, un noto critico teatrale italiano recensì uno spettacolo di Carmelo Bene e Gigi Proietti, osservando come il teatro più sperimentale di Bene si stesse, secondo lui, avvicinando a quello più popolare di Proietti. Oggi, guardando al tuo percorso ricco di esperienze sui palcoscenici italiani, pensi che il teatro abbia perso parte della sua valenza popolare? Cosa possiamo fare per avvicinare di nuovo il pubblico, soprattutto i giovani e i contemporanei, a questo linguaggio?
La verità è che non solo ho avuto l'opportunità di assistere a molti spettacoli di vario genere, completamente diversi tra loro, ma ho anche partecipato a produzioni molto varie, rivolte a pubblici altrettanto diversi. Questo, da un lato, è una grande risorsa, perché permette di spaziare dal teatro più sperimentale a quello che riesce a coinvolgere un pubblico più ampio. Dall'altro lato, è un peccato vedere spettacoli speciali e significativi, che potrebbero stimolare interesse in tanti, rimanere confinati in una nicchia. Credo che bisognerebbe trovare un giusto equilibrio nella comunicazione teatrale. Quando parlo con amici che non frequentano il teatro, spesso noto che lo associano immediatamente a qualcosa di "teatrale" in senso negativo, come se fosse qualcosa di distante o artificioso. Penso che ci sia bisogno di una mediazione tra il modo in cui il teatro viene comunicato e ciò che realmente si mette in scena. A volte gli argomenti trattati possono sembrare complessi o cervellotici, ma forse, con una comunicazione più accessibile, potrebbero raggiungere più persone. Ad esempio, lo spettacolo che metterò in scena quest'anno, una commedia musicale molto famosa che celebra il suo cinquantesimo anniversario, tratta temi che, alla fine, sono molto più moderni e profondi di quanto possano apparire inizialmente. Questo spettacolo riesce a raggiungere tutti, ed è popolare nel senso più positivo del termine. Ci sono casi come questo anche nel cinema, dove film che sembravano destinati a un pubblico ristretto, grazie a una combinazione di trama, messaggio e fruibilità, riescono a ottenere un successo sorprendente. Non ho una risposta definitiva, ma credo fermamente che sia possibile avvicinare il pubblico, e negli ultimi anni ci sono stati esempi che dimostrano questo. Forse dovremmo studiare più a fondo questi casi per capire come replicare il successo, partendo dalla comunicazione del linguaggio teatrale.
Hai anticipato la domanda successiva sul tuo prossimo lavoro a teatro, Aggiungi un posto a tavola, in cui interpreterai il ruolo di Clementina. Ce la presenti?
Certo, in teoria Clementina è più una ragazza, una giovane donna, e questo è un aspetto particolare per me, poiché mi sono sempre vista un po’ come una bimba; anche fisicamente, spesso mi hanno associato a quell’immagine. Clementina, è una giovane donna che si muove all'interno di una grande fiaba, perché alla fine è proprio così: non c'è un luogo preciso in cui si svolgono i fatti, ma lei è fondamentalmente innamorata. Una delle cose di cui mi sono resa conto nel tempo, e di cui sono orgogliosa, è il suo coraggio nell’esprimere questo amore, un amore irrazionale per il prete Don Silvestro, originariamente interpretato dallo straordinario Johnny Dorelli. Clementina è impulsiva, e questo è dovuto sia alla sua giovane età che alla mia personale esperienza: essendo io una persona più riflessiva, ho imparato che l’amore è un impulso, qualcosa che ti travolge e che può sembrare un po’ folle. All'interno di questo mondo, dove tutti i personaggi sono un po’ estremi e fiabeschi, Clementina rappresenta questo istinto primordiale. In una canzone si dice che l’amore è come il morso di una cavalla alla pancia: un’immagine un po’ bizzarra, ma molto evocativa. Ecco, questo è Clementina.
Riflettendo su altri due ruoli che hai interpretato nel 2023 nei film Te l'avevo detto di Ginevra Elkann e Finalmente l’alba di Saverio Costanzo. Hai dato vita a due donne apparentemente molto diverse. Da un lato, nel film di Costanzo, c'è Iris, una ragazza che si prepara per un provino per un grande film, ed è caratterizzata da una certa disinibizione e determinazione, che la rendono più tenace rispetto alla protagonista Mimosa. Dall'altro lato, nel film di Ginevra Elkann, interpreti una giovane donna che appare più insicura. Com’è stato per te approcciarti ai copioni e alla preparazione di questi due personaggi diversissimi in un lasso di tempo così breve?
Sì, queste due donne sono davvero così diverse tra loro. I due progetti erano molto vicini nel tempo: Te l’avevo detto è stato girato nella primavera del 2022, seguito nel corso dell’estate dal film di Saverio Costanzo. Per me, questa è una delle esperienze più belle, soprattutto all’inizio della mia carriera. Il mio desiderio di proseguire e di interpretare personaggi anche molto diversi tra loro è il mio sogno più grande. Nel caso di Te l’avevo detto, il mio personaggio, Mila, è una ragazza molto insicura. Questa fragilità si manifesta in una durezza apparente, accompagnata da un forte senso del dovere e di praticità di fronte a una situazione complessa nella sua vita personale. La sua lotta per superare i problemi diventa a sua volta una sfida, e nel percorso riesce ad aprirsi al mondo, rendendosi conto che deve prima di tutto pensare a se stessa, piuttosto che alla madre, la cui vita è stata piuttosto tumultuosa. Al contrario, nel film di Saverio Costanzo, l’ambientazione era completamente diversa: siamo nella Roma degli anni Cinquanta, immersi nell’atmosfera di Cinecittà, un periodo d’oro per il cinema italiano. Anche il dialetto romanesco rappresentava una sfida per me, perché pur essendo romana, non sono abituata a parlare in quel modo. I costumi, l’ambientazione, e persino la postura dei personaggi erano molto distintivi, e questo è proprio ciò che trovo entusiasmante: la possibilità di esplorare ruoli così diversi. Quando penso a ciò che farò quest’anno, come il musical, mi rendo conto che la varietà è ciò che desidero di più. Voglio continuare a esplorare nuove strade, tornare a ciò che mi appassiona, ma anche deviare verso nuove esperienze che fanno parte del mio percorso artistico.
L'anno scorso, al Cinema Ritrovato di Bologna, Damien Chazelle raccontava di quanto inizialmente odiasse i musical. Tuttavia, dopo aver visto alcuni film, è nata in lui una passione così forte che l'ha portato a realizzare i film che tutti noi conosciamo. Come è nata la tua passione per il musical? Ti è mai capitato di osservare il mondo intorno a te con la speranza che da un momento all'altro, la vita si trasformasse in una coreografia, in un musical?
Sì, questo è proprio il capitolo dedicato alla follia! Nella mia immaginazione c’è sempre quel momento in cui immagini che tutti inizino a cantare per strada. Sono proprio quelle situazioni che le persone che odiano i musical considerano assurde, ma io non la vedo così. È come vedere il mondo avvolto in una colonna sonora, in cui i momenti più belli o intensi emergono con la musica. Spesso si dice che il canto arriva quando le parole non bastano più; in un certo senso, è una forma di espressione più profonda, che può anche risultare disperata. Questo è esattamente ciò che mi appassiona di più: raggiungere quel limite in cui hai bisogno di esprimerti in un modo diverso. Se penso ai musical che mi hanno colpito di più, non posso non citare Les Misérables, che ho amato tantissimo, specialmente con un cast straordinario come Hugh Jackman e Anne Hathaway. È stato uno dei musical che ho apprezzato di più. Spesso mi è capitato di andare a Londra per vedere i musical, come Wicked e Il Re Leone, e ho cercato di assistere a quanti più spettacoli possibile. È proprio guardando queste produzioni di altissimo livello, come quelle di Broadway, che è nata la mia passione per il musical.