Se Parthenope di Paolo Sorrentino vuol essere una metafora, un diadema del tempo creaturale infine smarrito, non tutte le sue perle sono lucenti. E gli stessi smeraldi dell’esistenza trascorsa appaiono spaiati nella discontinuità. Non si tratta di vuoti, semmai è l’intera sostanza preziosa a sfuggire alla piena attenzione dello sguardo. Un racconto frastagliato, forse volutamente contraddittorio, eppure la sensazione che si tratti, appunto, di un’opera sulla tardiva consapevolezza dell’oro della giovinezza ormai lontana, bellezza da intuire pienamente solo quando è già infranta, in attesa di decomporsi, smeraldo ormai scheggiato, viene infine meno, quasi si dissolve. Così nella certezza che molti spettatori faranno proprio l’ideale poster della ragazza Celeste Dalla Porta, il suo splendore somatico, nelle stanze più intime, altrettanto i luoghi d’incanto letterario che la mostrano come totem desiderante: imperiale, eppure sdrucita, Napoli restituita insieme al suo satellite marino, Capri. Va detto ancora, senza nulla togliere alla cosmogonia dell’estate felice, che le scene con la quinta dei suoi faraglioni iconici, riportano al prestante giovane semidio tentatore in costume bianco che figurava anni addietro in uno spot di Dolce e Gabbana. Ed è altrettanto certo che la milanese Parthenope-Celeste custodisca tutte le carte napoletane in regola per essere innalzata nel pantheon della desiderabilità da ogni coetanea, figlia di ceto medio riflessivo. Celeste Dalla Porta, nipote di Ugo Mulas, il fotografo della Milano del bar “Jamaica” di Luciano Bianciardi e Piero Manzoni, un diploma di recitazione al Centro sperimentale di cinematografia; avvenenza estatica adolescenziale, i segni della varicella, impercettibile stigma struggente dell’infanzia trascorsa sul viso, desiderabilità propria della gioventù nella sua pienezza erotica, fascinatoria perfino da uno stato di quiete, sebbene tale stato d’animo prossimo alle epifanie amorose Sorrentino l’abbia precisato con vero nitore ne La grande bellezza: il primo amore di Jep Gambardella seduta su uno scoglio contemplata, ritrovata riemergendo dall’acqua; rêverie, metafisica dell’indimenticabile.
Dicevo, appunto, che il film vorrebbe restituire l’inconsapevolezza che si fa infine coscienza di sé nel tempo trascorso, innocenza e bellezza perdute, tempo dell’estate felice ormai lontana insieme a ogni pienezza; la malattia del tempo e il suo infranto, appunto. Tuttavia, sia pure nella discontinuità e la perdita d’attenzione, il film custodisce due castoni narrativi preziosi: la spietata “deposizione” dell’attrice Greta Cool (interpretata magistralmente da Luisa Ranieri) simulacro grottesco e osceno di Sophia Loren, che consente a Sorrentino un’invettiva contro la diva-feticcio e, per estensione, sull'ontologia stessa di Napoli. Poi il vescovo a guardia del mistero di San Gennaro interpretato da Peppe Lanzetta, ignobile sublime spudoratezza che riporta alla sostanza pagana, se non alla "truffa" della liquefazione del sangue del patrono cittadino. Manieristico è invece il momento in cui l'occhio del film penetra nel cafarnao della plebe camorristica dei Quartieri Spagnoli, Montecalvario o forse Avvocata, contraltare alla Napoli di Posillipo e Mergellina e della stessa Capri, quasi un omaggio a La pelle di Malaparte narrata al cinema da Liliana Cavani. Voglio immaginare che avere oscurato, celato con una maschera, veletta o museruola, il viso di Flora Malva, ossia Isabella Ferrari, sia un espediente sadico d’autore. Peccato invece che il figlio nascosto del professore di antropologia, interpretato da Silvio Orlando, sia molto meglio precisato in The young pope dello stesso Sorrentino, quando la ragazza Esther si consegnava con struggente compassione amorosa, sia pure teratologica, verso l’altrettanto perturbante giovane Attanasio.
Devo confessare che chi abbia davvero a cuore il sentimento ormai desueto, se non proprio della lotta, certamente dell’idiosincrasia verso lo stereotipo, comunque desiderabile, della ragazza borghese, è quasi costretto a provare un sentimento di aversione verso la protagonista, Celeste Dalla Porta, pensando appunto, lo si è già detto, a chi si è subito precipitano a divinizzarla nel palmarès del contesto letterario amichettistico. Peccato invece che Stefania Sandrelli, cui è affidato il volto segnato di Parthenope ormai anziana, inchiodata al disincanto metaforico di un’ormai raggiunta “età pensionabile”, in filigrana è la trascorsa Adriana Astarelli di Io la conoscevo bene, non spicchi come sarebbe stato necessario; omaggio assoluto a un capolavoro e al profilo di Stefania, già ragazza. Parthenope fa sempre ritorno alle ascisse e ordinate compositive proprie di Sorrentino: i dettagli dello sguardo della ragazza, la sua schiena che si staglia sul sensibile naturale, creaturale, come in Magritte quando questi mostra un quadro sul cavalletto che presenta un paesaggio, chissà però se la realtà oggettiva coincida davvero con le "cose" raffigurate sulla tela. La tintura, nero catrame, sui capelli del vescovo Tesorone, gli arredi della Napoli borghese affacciata ancora sui faraglioni, mitografia iconica con il Vesuvio di sfondo, la cura del dettaglio, l’emozione restituita da Era già tutto previsto di Riccardo Cocciante, nel film innalzato come canto gregoriano della giovinezza ora lontana: metafisica cellulite e delle smagliature che infine verranno. La vettura idrante, aracnide di tortura degna di Dino Buzzati, nei giorni del colera del 1975 che blocca la carrozza trainata dai cavalli impennacchiati di lutto, dove già Vittorio De Sica ha mostrato il “funeralino” del bambino ne “L’oro di Napoli”. Un’altra carrozza, d’oro, memoriale del tempo dei viceré spagnoli, fa invece da culla e poi alcova alla ragazza Parthenope...
Nota finale. L’ho visto a Roma, al Cinema Troisi, frequentato da ragazze e ragazzi, cloni antropologici di Celeste Dalla Porta o comunque creature che a lei, ne sono certo, cercheranno di approssimarsi. Tornando alla luce, scivolati via i titoli di coda, una volta in strada, pensando al presente storico contingente, ho immaginato, i neofascisti al governo idealmente non meno di sfondo, un loro ideale film destinato a fronteggiare il viso di Celeste. Pino, il titolo dell’opera, dove Pino è Pino Rauti, figura identitaria della destra trasmigrata nel volto di Giorgia Meloni… Gli orecchini di plastica colorata come piccole ghirlande sui lobi di Parthenope sullo sfondo azzurro del golfo di Napoli nell'incanto tirrenico, d’improvviso in dissolvenza incrociata con i pendagli da gioielleria di via Condotti a sigillo del volto di Giorgia Meloni.