La sveglia alle undici di sera per il “cappuccino”, la droga, le prostitute, la vita di notte per le strade. Tutto questo è parte di Franco Califano. Troppo spesso, però, il suo lato “mondano” ha fagocitato l’artista. I suoi vizi scambiati come unica misura della sua libertà. Il docufilm Nun ve trattengo di Francesca Romana Massaro e Francesco Antonio Mondini presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma ci dice che c’è qualcosa di più. Franco Califano era libero perché parlava la lingua dei detenuti, perché non si nascondeva dietro una morale di facciata, perché diceva ciò che pensava. “Non era legato a partiti, amichettismi o circoli di qualche tipo”, ci ha detto la regista durante l’intervista. E nel film ci sono immagini inedite, che restituiscono l’immagine di un Califano diverso dal playboy che tutti conoscono. Una persona “estremamente profonda, malinconica, che viveva delle emozioni degli altri e le rimetteva nelle sue canzoni”. Un “giornalista dei sentimenti”, come lo ha definito Antonello Mazzeo. Il racconto esce dai microfoni di Radio Radicale (diffusa dall’auto guidata da Lele Vanoni), da cui parlano i tanti che lo hanno conosciuto: Claudia Gerini, Barbara Palombelli o Francesco Rutelli solo per citarne alcuni. Ed è proprio quest’ultimo che ci tiene a ricordare la completezza della figura di Califano, la sua poetica della libertà e non solo quella della trasgressione. Ma c’è anche Noyz Narcos, per il quale la musica del Califfo è più vicina di quanto si creda al rap. Il maestro parlava in modo altrettanto diretto con il suo pubblico e possedeva la capacità rara di connettersi con gli ascoltatori più diversi. Pochi, probabilmente, si sarebbero potuti permettere di salire sul palco di un concerto in carcere, rivolgersi ai detenuti e dire: “‘A delinquenti”.
“Parlando con amici, conoscenti, con i miei genitori ho capito che tutti avevano un’immagine un po’ stereotipata di Califano”, ha aggiunto il regista Francesco Mondini. Il rischio è che la musica arrivi sempre dopo. Troppo dopo. Invece è il punto di partenza, il motivo per cui il maestro è rimasto nella vita di tutti. “La mia libertà”, cantata “solo quando serve”, per esempio. E le canzoni scritte di notte, nei cinque minuti in più in cui il Califfo rimaneva solo mentre gli altri dormivano, lasciate davanti alle porte degli amici, o le poesie da mandare alle fidanzate da trascrivere con una sola raccomandazione: “Non ci mettere niente di tuo”. Il docufilm non si limite a parlare del successo di Califano. C’è anche il carcere, la sofferenza nascosta di un uomo che si ostinava a dire che “si abbronzava anche con la pioggia”. Poi le donne che lo “amavano perché era figo e non perché era Califano”, come ci ricorda Mondini, e che il Califfo non ha mai pagato. E che talvolta rifiutava per stare con la band, con gli amici: “Capitava, come si vede nel documentario, che Stephanie di Monaco lo invitasse a cena e lui rispondesse: ‘No, domani gioca l'Inter e devo andare a cena con i ragazzi della band’”. Ma il maestro è stato anche solo. Una solitudine però che sapeva affrontare e interpretare, che forse era la fonte del suo carisma: “Secondo me si sentiva la sua autenticità, che comunque è la cifra che tutti gli riconosciamo, anche magari inconsciamente. È questa la cosa che ci fa sentire più vicini, che ci aggancia subito”, ha detto ancora Francesca Massaro. L’autenticità si poteva tradurre, in certe occasioni, in ingenuità. Troppi i finti amici, i membri della “corte dei miracoli” che si sono approfittati di lui. “Nun ve trattengo” toglie la maschera al Califfo, andando oltre lo stereotipo. C’è Franco Califano, invece: l’uomo che soffre, che dice di no alle donne, che è stanco per la vecchiaia. E la verità per un giornalista dei sentimenti sta in entrambe le cose.