La prima impressione è quella che conta. Lo dice un vecchio detto popolare, quindi è vero, tanto quanto è vero qualsiasi concetto che abbia superato l’incedere del tempo, il progresso, i cambiamenti climatici, la pandemia, la trap. La prima impressione è quella che conta, quindi è fondamentale, si dice, presentarsi bene il primo giorno di lavoro, azzeccare l’attacco di una canzone, pensate alla sequenza sghemba di accordi di piano de Il mare d’inverno, o anche semplicemente l’incipit di un articolo. Semplice un caz*o. Fosse poi cosi semplice vi appassionereste a leggere anche gli articoli di un Paolo Giordano o di un Luca Dondoni, per dire. Articolo un caz*o, quello che state leggendo non è un articolo. Il fatto che io non abbia ancora dichiarato di cosa intendo parlare arrivati fin qui lo attestata. E voglio parlare proprio di prime impressioni, perché è sulle prime impressioni che si basa il giudizio, vuole il detto, di chi viene chiamato a fare il giurato in un premio musicale, in genere, come di chiunque giudichi qualsiasi cosa o persona. Si tratti delle prime impressioni della canzone che presenta, o della prima impressione di una qualche canzone che chi è in gara ha già fatto e tu, giurato, hai già sentito, o che si tratti delle prime impressioni che chi concorre a un premio dà al giurato parlando, si tratti di parlare al ristorante, nel backstage o in qualche ipotetica situazione che chi organizza il premio ha previsto per far conoscere a grandi linea chi concorre a chi poi dovrà giudicare. La prima impressione è quella che conta. Quindi voi, ora, dopo duecentocinquanta parole, tante ne ho usate fin qui, più della media di parole di cui un italiano medio utilizzi nella sua vita di tutti i giorni, ecco, l’impressione che voi ora voi, dopo duecentoottantatre parole vi sarete fatti di questo mio testo Io in genere questi li chiamo pezzi, gigioneggiando nell’usare un linguaggio da musicista scrivendo di musica, ecco, l’impressione che voi ora, dopo trecentoquattordici parole vi sarete fatti di questo mio pezzo è che io stia scrivendo dello scrivere. O che io stia scrivendo di me, impressione ricorrente per chi legge i miei pezzi, seppur io abbia ripetuto un numero sufficiente di volte che si sta parlando di un premio musicale, certo non ho specificato quale, però i titoli stan lì per un motivo, no? E seppur io abbia lasciato intendere che di quel premio io sia giurato. Vi avessi detto che queste parole, trecentonovantacinque, le sto scrivendo mentre il treno Italo 9980 ci sta portando da Napoli Afragola a Milano. È domenica mattina, specificando che al mio fianco c’è mia moglie Marina, spesso presente suo malgrado nei miei pezzi, quasi mai presente quando si tratta di parlare nello specifico di situazioni musicali. Lei, viva Dio, si occupa di tutt’altro. Il tablet su cui scrivo appoggiato sul tavolinetto dove c’è anche una busta con tre panini, due prosciutto e provola, uno salame piccante e provola. I primi due per me, l’altro per Marina, preso al caseificio di fronte all’hotel Max, che ci ha ospitato. Caseificio dove abbiamo preso anche dieci mozzarelle di bufala da portare a casa, a Milano. Io di solito scrivo in un ppc portatile, il tablet, dicevo, ha scritto “Gigi” invece che “d’altro”. Non abbiate paura dell’intelligenza artificiale. Dicevo del treno dove sto scrivendo, Marina al mio fianco, i fratelli Gabriele e Federico Avogadro, la loro mamma Laura, e Miguelina, la fidanzata di Federico, rispettivamente figli e moglie del grande Oscar, uno dei nostri massimi parolieri, purtroppo scomparso prematuramente, Pippo Kaballà e Vincenzina, in arte Mercedes Marieva, grande autore e cantautore, il primo, grande artista che da qualche tempo sta riscrivendo in italiano testi di grandi classici del tango, nella fila davanti a me, Simona Molinari, e non credo servano presentazioni, la fila davanti, Roberto Trinci, editore per conto di Sony, e Massimo Germini, insigne chitarrista e autore, in quella ancora davanti. Se io avessi deciso di dirvi tutto questo, la prima impressione è quella che conta, avreste forse avuto impressione che io stia parlando di un viaggio di lavoro, la giuria di un premio musicale, seppur un viaggio di lavoro singolare, la moglie al fianco, due fratelli con la mamma più dietro, Kaballà con la moglie davanti. Ecco, la prima impressione è quella che conta, è vero, quindi così non può andare, è tutto sbagliato.
Non posso partire così per raccontare il Premio Bianca D’Aponte di Aversa, giunto alla ventesima edizione, vinto meritatamente da Valentina Lupi, che ha ottenuto non solo la vittoria finale, ma anche il Premio della Critica, giuria di cui faccio parte, solo di questo treno. Gli altri hanno tutti votato per la vittoria finale, Premio della Critica intitolato a Fausto Mesolella, a sua volta scomparso prematuramente, per anni direttore artistico della manifestazione, sostituito poi dal suo compagno di viaggio, non solo dentro gli Avion Travel, ma anche in tante altre esperienze musicali, Ferruccio Spinetti. Il Premio della Critica condiviso da Valentina Lupi con Irene Di Brino, poi vi dirò chi ho votato io. Non posso partire così per parlare del Premio Bianca D’Aponte, giunto alla ventesima edizione, premio dedicato alla giovane e talentuosissima cantautrice Bianca D’Aponte, tragicamente scomparsa a ventitré anni il giorno di ferragosto del 2003. Premio fortemente voluto da suo padre Gaetano, sostenuto anche da sua moglie Giovanna, e portato avanti anche grazie alle energie di Gennaro Gatto, per tutti Genny, amico d’infanzia di Bianca. Perché questo non è un premio come tutti gli altri, è speciale, è un miracolo, e questo non è un gruppo di colleghi, ma di amici, merce rara nel mondo dello spettacolo. E quindi questo non è un viaggio come un altro, tanto meno un viaggio di lavoro, questo è parte di quel miracolo. Quindi ricomincio, che saranno mai novecentosessantuno parole? Io amo le stelline dei Pan di stelle. Partiamo da qui. Io amo le stelline dei Pan di stelle. A pronunciare queste parole, sono le tre di notte, e nonostante sia fine ottobre ci sono venticinque gradi, di giorno tocchiamo i trena, a pronunciare queste parole, dicevo, non un passante qualsiasi, magari a bordo di una auto pimpata che spara musica discutibile da un impianto radio decisamente sovradimensionato, qui ne abbiamo incrociate parecchie, ma Enrico De Angelis, critico musicale a lungo alla guida del Premio Tenco, diciamo dalla morte di Amilcare Rambaldi fino alla morte del premio, come canterebbero Giovanni Lindo Ferretti e Ginevra Di Marco in Montesole, “canto la morte che muore”. A pronunciare queste parole Enrico De Angelis che è storicamente indicato come colui che ha indicato per primo la definizione “canzone d’autore”, e che ci fa sapere, mentre Romeo Grosso di G-Ro mesce Jegermaister spiegando a noi astanti, sono le tre di notte, che va messo sempre molto ghiaccio, con cocktail e superalcolici, perché il molto ghiaccio, specie se è a cubetti pieni, non si scioglie e quindi non annacqua, come invece succede con poco. Giuseppe Anastasi, sua moglie Carlotta Scarlatto è su in camera, lei presenta insieme a Ottacio Nieddu e ora riposa. E poi Cristina Donà, Saverio Lanza, Francesco Santalucia e buona parte di chi ora è presente su questo treno, non posso mica fingere di essermi già giocato un incipit, a ascoltarlo incantati. Poi arriva Enrico De Angelis e le stelline dei Pan di stelle. Non pago aggiunge un superfluo, “Ve li ricordate i Pan di Stelle?”, superfluo perché i Pan di stelle sono del 1983, Enrico del 1948, e perché i Pan di stelle ci sono e lottano ancora insieme a noi. Questa cosa mi colpisce, dico l’ovvio, altrimenti non me ne sarei ricordato ora che il treno ha da poco lasciato Roma, nel mentre Vincenzina è scesa e Simona Molinari si è incautamente spostata seduta di fianco a Pippo Kaballà, vero mattatore di questi viaggio e di tutti i momenti conviviali di questi giorni aversani, uomo colto e di una simpatia debordante, seppur difficile da contenere. Mi colpisce forse per la sua insensatezza. Nel mentre Romeo è passato a spiegarci come si possa aggirare il problema del trovarsi di fronte Negroni sbagliati in certi bar con bartender non all’altezza, cioè chiedere Gin col Campari, fatto che in genere manda in confusione il bartender poco esperto che si ritrova così a riempire il bicchiere di Gin e di Campari, senza altri componenti lì a annacquare il tutto. Romeo, in realtà, è qui per altro, lui si occupa di organizzare eventi, ma nello specifico è qui per accompagnare Teresa De Sio, vincitrice del Premio alla Carriera della città di Aversa, Teresa De Sio che proprio ieri sera, nella serata finale, benché con una spalla dolorante, ci ha incantato al Teatro Cimarosa, con una performance di grande emozione, la sua traduzione dal portoghese in napoletano dal di Stella del cantautore brasilinano Lenine, e soprattutto al finale Voglia ‘e turnà hanno tirato giù il palazzo. Come ha tirato giù il teatro anche Simona Molinari, lì come ex madrina del Premio, tornata per festeggiare il ventennale, certo, ma soprattutto perché tutti poi tornano, almeno tutti quelli dotati di un cuore, e se l’aveste sentita cantare ieri sera, tra swing, la Napoli di Bungaro e l’Argentina di Mercedes Sosa. Vi sareste commossi con tutti noi, anche sentirla parlare di come la musica, con gli strumenti tutti diversi fra loro ma che si fanno appunto strumento, quindi mezzo, per raggiungere l’armonia dovrebbe essere scolpito su pietra, Simona è una artista risolta e quindi autorevole, oltre che una bellissima persona, lei un cuore ce l’ha, verrebbe da rispondere a un incauto Marco Armani nei paraggi. Altre ex madrine quest’anno le già citate Cristina Donà, che nella serata di venerdì, con Saverio Lanza, ha letteralmente ammaliato i presenti, non solo eseguendo una incredibile versione di "Ma l’amore no" di Bianca, ma anche eseguendo da par suo "Universo", introdotta da un testo su come tutti noi si sia composti di frammenti di stelle arrivate da ogni angolo delle galassie, e con tanto di coda di "Starman" di David Bowie, per poi scendere tra il pubblico e compiere il miracolo di farci fare armonizzazioni, a tutti i presenti. Una versione corale e celestiale di "L’infinito nella testa". Una presenza scenica, quella che Cristina ha esibito, perfettamente allineata a una delle voci più belle tra le nostre cantautrici, mese al servizio della penna migliore tra le cantautrici. Un ennesimo miracolo la sua gig, come prima di lei era stato miracoloso Gnut, arrivato sul palco in stampelle, a causa di un incidente estivo, per poi abbracciarci tutti con la sua voce avvolgente e la sua scrittura densa, con sul finale un duetto inedito e potentissimo di Nun te ne fa, con Renzo Rubino, poi padrone della scena, voce e piano, chiudendo il suo magnifico set con una sussurrata "‘O surdato innamorato", versione suggeritagli al mare da Fausto Mesolella, anni fa. Qui a Aversa succede così, durante il Premio Bianca D’Aponte, quest’atmosfera magica si traduce in esibizioni uniche, emozionanti come un contesto del genere richiede. Perché altrimenti, come spiegarsi Ginevra Di Marco che con Francesco Magnelli e Andrea Salvatori ha tenuto per quasi sette minuti tutti gli spettatori in ostaggio con una versione magnifica di Montesole, un testo così potente cantato da una voce così potente da lasciarti letteralmente in apnea, qui funziona così ripeto. Poi, ma qui andrei fuori tema, e suppongo faccia ridere che io, proprio io, parli di andare fuori tema. Sarebbe da andare a protestare in piazza contro una discografia che oggi come oggi lascia senza contratto tutti le artiste citate sin qui, perché solo una discografia miope, peggio, suicida rinuncerebbe a tre artisti e così, per dirla proprio con la Donà, stellari. Discorso che credo potrei fare anche per la madrina di questa edizione, Margherita Vicario, che proprio in chiusura della serata finale ha deliziato tutti con la sua grazia, la sua ironia e la sua capacità di veicolare messaggi importanti, mica per nulla ha proposto "Abauè" (oltre che una divertentissima versione con band residente di Pina Colada e una iniziale Nota bene). Lei, del resto, è subito entrata nello spirito del Premio, arrivando a Aversa via venerdì,partecipando all’incontro di presentazione delle ragazze, curato da John Vignola, sabato mattina, e familiarizzando con tutte e tutti, perché questo è una questione di famiglia, appunto, per come è nato, un dolore che ha gemmato tanta bellezza, e perché Aversa è diventata negli anni casa per tutti quelli che siano passati di qui. Ecco, forse però dovrei partire dalle ragazze, dalle partecipando ai Premio. Dai, ci riprovo.
“Io ero un po’ una mosca rossa”. Lo so, avevo detto che sarei ripartito dalle ragazze che sono state in gara alla ventesima edizione del Premio Bianca D’Aponte, e invece ho fatto altro. Ma mentre stiamo andando verso Firenze Pippo Kaballà ha appena detto che quando studiava giurisprudenza a Catania, in una facoltà di destra, lui era una mosca rossa, immagino per dire che era una mosca bianca ma anche che fosse di sinistra. Non so voi, ma io, di fronte a frasi del genere, perdo lucidità. Tutto il resto scompare e mi concentro su quelle, per quanto sia possibile stare concentrati al cospetto di una persona che di perle del genere ne sforna a secchiate. Ripeto, si una simpatia debordante. Per dire, gli abbiamo detto, per quel vezzo di vestire sempre di nero e portare i capelli raccolti in un piccolo codino, che somiglia a Bono degli U2. L’intento era ironico, quasi denigratorio ma lui, Kaballà lo ha preso sul serio, al punto di cominciare a girare abbracciandosi, proprio come Bono, iniziando anche a raccontare aneddoti riguardo lui e Bono. Io e Saverio Lanza, come me affascinato da tutto ciò, abbiamo assistito a lui che raccontava ci quando è andato con Francesco Virlinzi a Zurigo, a un concerto degli U2, e di quando ha quindi conosciuto Bono, lì a abbracciarlo dicendo che Sicilia e Irlanda sono isole, e infine chiosando che è bassino di statura. Aneddoto che dopo poco ha nuovamente proposto a Saverio, arricchito di nuovi particolari fantasiosi, forse non ricordando che glielo aveva già raccontato poco prima, come fosse la falla di una turnè in "The road" di Jackson Browne. Probabile che entro sera qualcuno gli sentirà dire che è lui a aver scritto "Unforgettable fire" o "With or Without you". E a proposito di “unforgettable fire”, più tardi, a tarda notte, alla presenza stavolta anche di Antonio Convertino, giunto in città per Simona Molinari, con cui lavora, Kaballà dirà che Mauro Ermanno Giovanardi in arte Giò dei La Crus, altro amico del Premio Bianca D’Aponte, assente giustificato, è stato in precedenza cantante di una famosissima band punk, i Carnival Fire, che poi sarebbero i Carnival of Fools, band new wave, quando si dice stare sul pezzo. Del resto il viaggio era iniziato, venerdì mattina, proprio con lui, Kaballà che era salito sul treno a Rogoredo, dopo averci scritto su Whatsapp, “per favore niente applausi”, dichiarando a gran voce “mi hanno appena chiesto di prendere incarico come Ministro della cultura”. Essendo un po’ sordo il suo tono di voce è altissimo, per cui, ciclicamente, è successo anche da poco, ci viene intimato di contenerci e non fare casino, come fossimo una scolaresca in gita. Il momento in cui, a tarda notte, all’ennesima mia sottolineatura che Kaballà deve leggere il labiale per sentire quel che dicono gli altri, Simona Molinari gli chiederà, vagamente alla Il favoloso mondo di Amelie, se fosse vero che deve appunto leggere il labiale, uno dei momenti top di questa edizione, parlo del fuori-teatro, ovviamente. Al pari di quando, un paio di edizioni fa, Massimo Germini, chitarrista di Vecchioni, tra le altre cose, ha versato una intera caraffa di vino rosso addosso a mia moglie Marina, la sua giacca intrisa come fosse stata senza riparo sotto l’uragano Katrina, il mio smartphone inondato e lui a dire a tutti, me compreso, “mi raccomando non lo dite a Michele”, fatto che viene ricordato con la frequenza che si riserva ai bei ricordi e con le risate che si riservano invece ai momenti particolarmente divertenti, sabato notte, a premio finito, anche solo al nominare il suo nome prima che arrivasse, mentre Romeo mesceva prosecco in tristi bicchieri di plastica, qualche goccia finiva sul tavolo, come se evocarlo equivalesse a averlo lì, goffo a buttar giù tutto, noi usiamo i bicchieri di plastica al posto della tavoletta Jumanji. So che sto continuando a parlare di contorno invece che dei piatto principale ma se io non citassi gli aperitivi ai Bar Roma, a due passi dal Teatro Cimarosa, ottimi e abbondanti e a prezzi con cui a Milano non ci fai manco mezzo Spritz e due noccioline, con le chiacchiere, le risate, le gag, lì si aggiungono sempre anche Rossana Casale, Duccio Pasqua e altri amici, nei pressi altri giurati in tavoli decisamente più silenziosi e tristi del nostro, o se non citassi le cene, a partire da oltre mezzanotte e fino a orari improponibili, mai a letto prima delle tre, non sarei raccontando questa esperienza. A ristorante si va a pranzo e a cena, tutti assieme, e la sera la cena si fa dopo lo spettacolo a teatro, quindi molto tardi. Si comincia sempre con la mozzarella di bufala, siamo a Aversa, qui la chiamano oro bianco, e poi si va avanti tra grandi risate alternate a argomenti seri, profondi. C’è anche una certa corsa a prendere posto vicino a quelli che si sente più vicini, il pranzo fatto con Cristina Donà e Saveri Lanza a portata di schioppo, o quella con Simona Molinari, Antonio Convertino e il papà di Simona pure, amici, appunto, che si sentono vicini o che si vedono raramente, perché poi albergo o teatro e ristorante non sono così vicini e ci si va a piedi, noi sempre i medesimi del dopo cena a base di Jegermaister, o in auto, Genny Gatto o altri a fare la spola. In un tavolo, in genere, ci sono quelli che rappresentano l’ala tradizionale della giuria della critica, il grande Francesco Paracchini de L’isola che non c’è , o qualche residuo del Club Tenco, vecchio o nuovo, qui per far gruppo. Poi ci sono gli artisti ospiti, e in un tavolo, assieme, le ragazze che partecipano al Premio, che ora andrò a presentare, regalando loro però un incipit ad hoc, il quarto, credo.
Valentina Lupi con "Non potevi manca tu" ha vinto la ventesima edizione del Premio Bianca D’Aponte di Aversa, madrina di questa edizione Margherita Vicario. Valentina Lupi ha anche vinto all’unanimità con Irene Di Brino con "Twist 2046" il Premio della Critica intitolato a Fausto Mesolella. Fossi un giornalista, quindi uno interessato ai fatti, direi anche chi ha vinto tutti gli altri premi, ma non sono un giornalista, e non me li ricordo. Posso dire che in gara c’erano dieci cantanti, oltre le due citate Magma, Giulia Leone, entrambe con due premi collaterali di cui non ricordo le specifiche, Fremir, Gama, Sara Torraco, le Kalika, Anna Sara e Beo. Io ho trovato una certa netta divisione tra le canzoni, alcune delle quali ho giudicati buone, le altre meno. Mi ha colpito la vincitrice, tornata a fare musica dopo otto anni di pausa, salvata dal suo amore e da Adriano Viterbini, una canzone appoggiata su un piano ostinato e una chitarra assolutamente di spessore. Mi ha colpito moltissimo Fremir con la sua "Pollice nero", profonda riflessione su come certe molestie anche non portate a termine finiscano per segnare le donne che in tutti i casi le subiscono, come del resto mi ha colpito il suo discorso sul femminismo fatto nella presentazione di sabato mattina e il suo dedicare la canzone alle sorelle e compagne. Mi ha colpito Magma, artista che già conoscevo, "Sto bene a casa" è una gran canzone, e lei sa come trasmettere il proprio sentire in musica. Mi ha colpito Gama, col suo sound elettronico, la sua ironia che però nel brano in gara diventa dolore. Il resto mi ha colpito molto meno. Certo, Giulia Leone e anche Beo avevano due canzoni riuscite, pop, leggere, ecco, forse troppo leggere. Il resto non mi ha lasciato niente, e niente posso riportare. Mi colpisce, ogni anno, perché io e mia moglie da che siamo venuti ore la prima volta non siamo più mancati, perché questa è una cosa di famiglia, di casa, mi colpisce ogni anno come manchi magari una nuova Cristina Donà, una nuova Simona Molinari, una nuova Ginevra Di Marco o una nuova Margherita Vicario, ma immagino che questo sia solo un ragionamento mio. Vorrei che altre grandi artiste trovassero i riflettori e sarebbe bello lo facessero usando il nome e l’aura positiva di Bianca d’Aponte come trampolino di lancio, prima o poi spero proprio succederà. Intanto Valentina Lupi avrà comunque il beneficio della pubblicità di aver vinto il Premio Bianca d’Aponte, dopo essere a lungo stata appartata e aver poi pubblicato un interessante album di ritorno dal titolo "Madre non madre", e di poter accedere ai palchi di altri premi al Premio Bianca D’Aponte gemellati. Tra questi anche il Music For Change di Musica Contro le Mafie, di cui vi ho raccontato qualche giorno fa, quest’anno sul palco di Aversa sono arrivati i vincitori dell’edizione 2023 del premio cosentino, i Malvax, che hanno incendiato la serata di venerdì col loro pop-rock molto interessante. Il fatto che durante la loro performance, loro bucano oggettivamente la scena, mi abbiano indicato tra il pubblico, fatto poi replicato da Cristina Donà mentre eseguiva "Universo", beh, è stato uno dei rari momenti di down del vulcanico Kaballà, il Bono Vox di Catania, per due frammenti di vita superato in narcisismo da me. Tutti gli altri della giuria della critica non pervenuti. Vorrei chiudere parlando di Bianca d’Aponte, artista che merita la più totale attenzione di chiunque abbia a cuore la musica, capace con la sua energia di convogliare ogni anno in questo angolo di Campania gente da tutta Italia, oltre che un nutrito gruppo di cantautrici pronte a contendersi un premio a lei dedicato, diventando spesso parte di una sorellanza (come quella evocata da Fremìr, ripeto, il saluto “dedico questa canzone alle sorelle e compagne” le sarebbe dovuto valere una menzione speciale). Su RaiPlay Sound c’è un radio documentario di Elisabetta Malantrucco e Mauro De Cillis che in cinque puntate ce la racconta. E soprattutto ci fa sentire dei suoi ulteriori inediti. Delle sue canzoni si trovano quasi solo le versioni eseguite di anno in anno dalle madrine del Premio. Esce una puntata ogni giovedì, la prima è già disponibile, andate a ascoltarlo. Io vorrei ma non posso, perché in due giorni ho dormito otto ore, mangiato invece un totale di quindici, parlato tutto il resto del tempo, quindi non ho la lucidità necessaria. Ne ho invece per menzionare almeno due altri passaggi fondamentali, ai fini di questo reportage che, lo avrete capito, racconta male e confusamente quanto il Premio Bianca d’Aponte sia una grande festa, nata da un profondissimo dolore genitoriale, quello di Gaetano e Giovanna. Un miracolo che accende riflettori su cantautrici, come ha spiegato bene Margherita Vicario durante il suo mini-set, da sempre tenute in disparte dal mercato discografico, in effetti qui rappresentato solo da Dino Stewart della BMG, alla sua prima esperienza, e da Roberto Trinci della Sony Edizioni. E proprio Trinci si vede diventare titolare di questo ultimo lacerto di racconto. Lui che venerdì, in tre differenti riprese, mi ha raccontato prima pacatamente, poi con picchi sempre più appassionati, di come abbia deciso di smettere di mangiare carne che derivi da allevamenti intensivi. Quindi una sorta di veganesimo che però fa eccezioni se la carne arriva da altre situazioni. Lui stesso mi ha specificato che solo il 2% della carne consumata al mondo non passa di lì, e immagino la mangi tutta lui. Mi ha spiegato come fino agli anni Ottanta la gente mangiasse carne, ma senza passare da quelli che per lui sono lagher al pari di quelli nazisti, e a ogni passaggio il suo racconto si è fatto più appassionato, a tratti più hardcore. Di fronte alle moderate rimostranze, non tanto rispetto alla brutalità di quei luoghi di tortura animale, nessuno di noi è un sadico maniaco, quanto piuttosto di certa enfasi che tendenzialmente accompagna appunto questi racconti, lui si è “convertito” per aver letto libri e visto documentari. Ora gira con foto di polli dentro gli allevamenti di tale fatta proprio per tenersi lontano dalle tentazioni, per me qualcosa di simile ai serial killer che scrivono col sangue sulle pareti delle scende del crimine “vi prego fermatemi”, di fronte alle moderate rimostranze mie e di Giuseppe Anastasi, che arriverà a definirsi animaliano, cioè uno che mangia solo animali. Ma lui vive in Umbria, e lì pure nelle edicole hanno animali che poi macellano e mangiano a chilometro zero. Lui ha provato a dirci che secondo lui qualcosa stava cambiando in noi, il fatto che entrambi abbiamo poi avuto una insaziabile voglia di cibo di McDonald’s o anche solo un kebab mi sa che dice altro. Potrebbe anche essere questa la chiusura, un po’ come l’ultimo selfie che ci siamo fatti prima di salutarci in stazione, ultimi resistenti io, Marina, Simona Molinari, Federico e Miguelina, Roberto Trinci e Massimo Germini, gli altri scesi a Rogoredo, ma non citare Kaballà che ha proposto di portare l’anno prossimo un aspersorio tipo quello che usano i preti in chiesa per benedire con l’acqua santa da regalare a Germini, così che possa aspergere vino sugli astanti. Il tutto mentre il treno era arrivato alla sua fermata, lui poi a correre goffamente verso l’uscita, ma credo che non affidare il finale a qualcosa di sentimentale o comunque legate al campo delle emozioni sia un errore di comunicazione. E io non ho tute grigie da esibire, né occhi celesti e capelli biondi. Passo invece a chiudere usando come sponda il titolo di questo pezzo. Titolo che fa riferimento al primo dei miei reportage del Premio Bianca D’Aponte, ormai introvabile da che Optimagazine, rivista per cui ho scritto per anni, è stata cancellata dal web dal nuovo CEO dell’azienda. Quel pezzo si intitolava “Essere Roberto Trinci” perché era lui a avere tutti i nostri biglietti del treno, dodici, come fossimo in un incubo alla Spike Jonze, autore di “Essere John Malkovich”, mentre stavolta a fare il capogruppo sono stato io, quindi “Essere Michele Monina”, cosa per me naturale da cinquantacinque anni e rotti. Ma al tempo stesso lieve metafora di come, in fondo, io me ne sia sì stato qui a scherzare e sdrammatizzare per oltre quattromilatrecento parole, lasciando che il mio spirito da stand-up comedian sovrastasse il mio essere animo sensibile, critico musicale e anche padre di quattro figli, figuriamoci se non mi tocca andare al premio istituito da un padre per la figlia cantautrice morta all’età che oggi ha mia figlia grande, la Lucia che ben conoscete da queste parti. Ecco, “Essere Michele Monina, venti anni del Premio Bianca D’Aponte” è sì un gioco di parole, ma è anche la plastica fotografia di come ci siano ancora spazi e persone nei quali e con le quali è possibile ritrovar se stessi, o almeno provare a esserlo, guardando all’essenziale delle cose, ai sentimenti, come l’amore, la familiarità e l’amicizia, e di conseguenza lasciando da parte numeri e mercato provando a concentrarsi sull’arte, quando c’è. L’appuntamento è per l’anno prossimo, ventunesima edizione, ora devo andare a capire se Amazon venda gli aspersori.