Erano gli anni '80, e Lydia Grant, la coreografa della New York School of Performing Arts, rifletteva l’impegno richiesto agli studenti il cui solo talento non bastava: bisognava impegnarsi a superare ostacoli personali e sociali. Questo monito ha ispirato generazioni di giovani che sognavano una carriera artistica, ricordando che il cammino verso il successo richiede studio, dedizione e costanza, ben oltre le luci della ribalta. Poi, la becera commercializzazione della proposta artistica nel primo decennio del terzo millennio ha partorito la formula dei talent show che promuovevano l’affermazione democratica dell’opportunità aperta a tutti. Produzioni mastodontiche, spettacolari, che hanno trasformato irrimediabilmente quei percorsi naturali fatti di attese e di anticamere delle aspiranti star: eliminando anche gran parte di quella struggente “poesia della scalata” che appartiene agli artisti della mia generazione. Oggi pochi talenti, molte meteore. Quello che conta è il business: i numeri al di sopra di tutto. Se stiamo assistendo da tempo alla disumanizzazione della politica, che non è un problema da poco, la musica risulta essere in uno stato avanzato di questo stesso rovinoso processo. Lo sfruttamento di giovani talenti - o di mediocri comparse - spremuti come limoni e poi abbandonati al loro destino quando il mercato non è più favorevole: è quello che abbiamo visto accadere tantissime volte.
Ragazzini comuni, catapultati in mondi fatati in cui fama, lusso, guadagni esponenziali, sesso facile diventano la nuova quotidianità: non sempre provvidenziale. Il successo precoce impone ritmi e responsabilità che pochi sono in grado di affrontare senza compromettere la propria salute mentale. L'industria dell’intrattenimento, non particolarmente interessata al benessere dei propri talenti, contribuisce a questa dinamica autodistruttiva. Gli artisti, che oggi vivono sotto una lente d'ingrandimento mediatica permanente, vengono spinti a mantenere un’immagine perfetta, esaurendo rapidamente le loro energie emotive, senza avere il tempo o il supporto necessario per elaborare il cambiamento profondo nelle loro vite. Il risultato è un ciclo devastante: il successo li solleva, ma la caduta può essere brutale. In questi giorni l’America s’interroga sulla morte di Liam Payne, trovato senza vita in un hotel in Argentina: notizia che ha scosso profondamente il mondo dello spettacolo. Secondo i rapporti, Payne stava assumendo una potente droga che può indurre allucinazioni, aprendo dolorose riflessioni sui rischi del successo raggiunto troppo presto e sul devastante legame tra fama e dipendenze. La sua storia non è purtroppo unica: numerosi artisti che hanno raggiunto la notorietà da giovanissimi sono finiti preda delle stesse fragilità. Liam Payne, come membro degli One Direction, è stato catapultato giovanissimo verso la celebrità. Mentre il mondo lo idolatrava, lui si trovava a vivere una realtà paralizzante: l’isolamento emotivo, le aspettative altissime e una continua esposizione pubblica invasiva. Poi lo scioglimento del gruppo e l'incapacità di ripartire con una carriera da solista di successo. Un mix esplosivo che porta a cercare rifugio in droghe e alcol. Una via di fuga temporanea per gestire il peso della pressione, della solitudine e anche di quel lacerante senso di fallimento in quello che diviene una performance senza fine. La vita, il mondo non sono altro che un palcoscenico - proprio come recitava Shakespeare sotto forma di profezia - a cui non ci si può sottrarre. Dentro lo show sei vivo: ma fuori da quel “mondo palcoscenico” sei morto. Liam si sarà sentito cosi. Morto in vita: isolato, dimenticato e incapace di far fronte alle esigenze del “never ending show”. L’Argentina indaga su chi abbia potuto aver procurato a Liam quella sostanza. Il resto del mondo artistico, oggi addolorato, nasconde sotto il tappeto un dramma ricorrente.