Dieci. Non è solo un numero. È la cifra tonda dei momenti che fanno la storia, dei traguardi che non si programmano ma si sentono forte nello stomaco. È il numero di Francesco Totti, ma da ieri sera, per una notte sola, anche quello di Ultimo. Terza data romana per questo tour, sì, ma soprattutto la decima volta all’Olimpico in carriera a soli ventinove anni. E a Roma, dieci significa qualcosa. È sacro, è eterno, è popolare. E Ultimo lo sa bene. Lo sente addosso, e infatti ieri sera è salito sul palco con la maglia numero 10. Ammettiamolo, l’unico romano che può permetterselo dopo Francesco. Noi di MOW c’eravamo già venerdì, alla seconda data. Ma quella di ieri era diversa. Era scritta. Non potevamo perdercela. Un paio d’ore prima dell’inizio del concerto ha iniziato a diluviare, e il parterre, pieno di fan arrivati ore prima per guadagnarsi un metro più vicino noi compresi, si è preso tutta l’acqua possibile. Ombrelli, mantelle, niente da fare. Solo pioggia dritta in faccia, ma nessuno si è mosso. Nessuno. Come se tutti sapessero che quella pioggia aveva un senso. E infatti, alle 21, quasi per magia, ha smesso. Il cielo si è aperto, ed è partito il concerto. Perfetto. Come se fosse stato scritto così fin dall’inizio. Dentro, un’Olimpico strapieno. Ennesimo sold out reale con gente ovunque, di quelli che te ne accorgi già dai motorini e dalle macchine in doppia fila all’inizio del Lungotevere. Dentro, un’onda rossa. Gli spalti hanno alzato migliaia di fogli fino a disegnare, su entrambi i lati del campo, quel “10” che non è più solo un numero: è un simbolo. Di fedeltà, di ritorno, di rivincita. Perché non è da tutti fare dieci concerti in uno stadio che ti ha visto crescere da ragazzino al pianoforte a San Basilio, a voce di una generazione che ha la pelle fragile ma il cuore gigante. Un gesto che solo Roma poteva inventarsi, uno spettacolo nello spettacolo. Un tributo. Un atto d’amore. Roma per lui, lui per Roma.

Ultimo ha suonato come se fosse l’ultima volta. Ma con la voce di chi sa che non lo sarà mai. Ha spinto forte sui classici, ha lasciato spazio al silenzio tra un pezzo e l’altro, ha parlato poco ma bene. Ogni parola sembrava una promessa. Ogni nota, un abbraccio. Il suo pubblico ormai lo sa a memoria, come si sa a memoria qualcosa che ti ha salvato la vita almeno una volta. E per due ore lo stadio ha cantato, pianto, urlato, saltato. Poi, sul finale, l’annuncio tanto atteso. Senza effetti, solo voce, solo cuore. Solo ricordi. Niccolò ha organizzato per il 4 luglio 2026 un evento speciale: “Ultimo – La favola per sempre”, un raduno unico a Tor Vergata. Stavolta niente stadio, niente centro città. Ma in periferia, dove si suona per appartenenza e basta. Sarà un concerto, sì. Ma sarà anche un rito, un ritorno, un gesto di chiusura e di rinascita insieme. Non è un ruolo, è un’identità. Una chiamata a raccolta per chi non si è mai sentito primo. Perché chi è Ultimo lo è per sempre. E non è un titolo: è un modo di stare al mondo. Ieri sera lo stadio non era uno stadio: era casa. Era un pezzo di strada che si chiude ad anello. E mentre si spegnevano le luci, si sentiva una promessa nell’aria: non è finita qui. Anzi, sta solo per cominciare. Infatti la vera chiusura della serata è arrivata dopo. Quando le luci dello stadio si sono spente e i fan si sono sparsi per la città, Ultimo ha fatto quello che non ti aspetti da una star da stadio: è tornato nel suo quartiere. A San Basilio. Nel parchetto dove è nato, dove ha iniziato a scrivere canzoni e a sognare in grande. E lì, davanti a un maxischermo che aveva fatto installare apposta, c’era un altro pubblico. Un’altra famiglia. Fan che non erano potuti entrare all’Olimpico, ma che lui ha voluto con sé. Anche da lontano. Perché il successo non cancella le origini. Le amplifica. Dieci. È il numero che chiude i cicli e apre le favole. E ieri, a Roma, se ne è scritta un’altra. Mai smettere di credere nelle favole.

