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Cosa rimane del Live Aid 40 anni dopo? Gabriele Medeot: “Irripetibile. Oggi nessuno è più ingenuo”. I ricordi (in un libro) dei Queen leggendari, di Collins stacanovista e di Clapton che rischiò di…

  • di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

8 luglio 2025

Cosa rimane del Live Aid 40 anni dopo? Gabriele Medeot: “Irripetibile. Oggi nessuno è più ingenuo”. I ricordi (in un libro) dei Queen leggendari, di Collins stacanovista e di Clapton che rischiò di…
Da qualche giorno, in libreria, è atterrato per Tsunami, direttamente dal secolo scorso, “Live Aid: il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore” di Gabriele Medeot. “Dobbiamo dare di più, ripeteva Sting. Oggi chi condividerebbe un pensiero così limpido e universale?”

di Emiliano Raffo Emiliano Raffo

Ci sono anniversari e anniversari. Questo – i 40 anni del Live Aid – rimanda a un mondo che in buona parte non c’è più. La storia di quell’evento, oggi, ce la racconta Gabriele Medeot, narratore musicale, speaker radiofionico e musicista, che per Tsunami ha firmato “Live Aid: il suono di un’era. Gli anni Ottanta e il sogno di un mondo migliore”, da pochi giorni in libreria. Oltre 16 ore ininterrotte di musica, un palco a Londra e uno a Philadelphia, 16 satelliti per una trasmissione globale con oltre il 90% per cento delle televisioni di tutto il mondo collegate, oltre 70 artisti protagonisti tra cui Paul McCartney, Queen, David Bowie, Led Zeppelin, Madonna, U2. “In sintesi, la miglior musica del decennio, eseguita dal vivo, dagli artisti più noti e influenti – osserva Medeot. Tutti uniti nel nome di un’unica voce, quella della solidarietà”. Eppure, all’epoca, l’underground vide il Live Aid come un muscoloso (e ipocrita) sfoggio di potenza da parte del mainstream. Giusto saperne di più. Giusto interrogare Medeot, che dal Live Aid, il grande concerto di beneficenza organizzato da Bob Geldof e Midge Ure, ci ha cavato fuori un volume che contiene un’era: la nascita della generazione Mtv, passando per Ronald Reagan, Maggie Thatcher e la caduta del muro di Berlino, che sarebbe arrivata quattro anni più tardi.

Alcuni artisti al Live Aid del 1985
Alcuni artisti al Live Aid del 1985

Quando ti dicono Live Aid, cosa ti viene in mente a livello di esperienza personale?

Quel 13 luglio 1985 era il giorno del mio compleanno, stavo aspettando che arrivassero i miei amici a casa. Mi viene in mente questa televisione accesa e la musica che mi travolge. Mi trovo in un'altra stanza, mi sento attratto dal suo potere magnetico. A quei tempi suonavo già il piano, da anni. Ed ero già appassionato di musica. Così ricordo che mi sedetti davanti alla tv e rimasi lì incollato per ore. Dovevo vedere, dovevo capire cosa stesse succedendo perché c'era qualcosa che mi stava chiamando. Questo libro è carico di memoria, di emotività.

Non fu subito chiaro come identificare quel mega-evento. Troppo grande, unico, debordante. Dopo tutti questi anni come possiamo descrivere il Live Aid?

È stata un'azione sociale, un'azione culturale, qualcosa che ha portato alla valorizzazione del concetto di solidarietà. La solidarietà davanti a tutto, in un momento storico molto particolare, perché alla metà degli anni ‘80 c'era una sorta di crisi economica, che però si stava superando. Cominciavano a girare soldi importanti e i boomer, i figli del secondo dopoguerra, stavano iniziando a entrare nel business. In più, il contesto tecnologico era vivissimo e con slancio futurista si guardava a ciò che presto sarebbe arrivato. Allo stesso tempo milioni e milioni di persone, in Africa, morivano di fame. Prima della globalizzazione il Live Aid lanciò un messaggio globale, perché tutto il mondo comprese l'importanza di fare qualcosa per gli altri. Il messaggio, in fondo, era uno solo, cristallino: la solidarietà.

Credo che il Live Aid sia stato anche una manifestazione figlia di un Occidente che aveva nel perno angloamericano un riferimento socio-politico-culturale molto forte. Un fronte abbastanza unito, almeno in apparenza, dal punto di vista valoriale. Oggi troverei complicato emulare qualcosa del genere. Con un Occidente così disilluso e diviso.

Sono d'accordo. I tempi per rifare un evento del genere sarebbero più che maturi tecnologicamente. Non riesco neppure a immaginare la ricaduta mediatica che provocherebbe. Ma non sono ancora pronte le persone. Durante il Covid ci siamo riscoperti esseri umani, però ci siamo isolati. Anche a emergenza conclusa. Stiamo troppo a guardare. Il mondo della comunicazione ce lo dice nettamente: siamo un esercito di commentatori, ma chi fa qualcosa? Guarda cosa sta accadendo nel mondo, in Palestina, in Ucraina, in Iran… I tempi sarebbero ideali per lanciare un messaggio forte. Però oggi non esiste più alcuna forma di ingenuità. Nessuno è più ingenuo. Parlo di quella sana ingenuità data dalla curiosità, dal desiderio di fare le cose.

Gabriele Medeot, esce per Tsunami con il volume sui 40 anni del Live Aid
Gabriele Medeot, esce per Tsunami con il volume sui 40 anni del Live Aid

Pensavo appunto a un ipotetico nuovo Live Aid come megafono per un messaggio di pace. Oggi non sarebbe così scontato, per il fronte artistico Occidentale, condividere una medesima idea di pace…

C’è questa arroganza nel supporre, o nel presupporre, di sapere sempre come devono essere fatte le cose. E la scarsa capacità di ascoltare. In campo musicale, fin da bambino, capisci quanto sia importante ascoltare. I silenzi, le pause. Ascoltando il silenzio l’anima si allena a sintonizzarsi su altre frequenze. Oggi abbiamo tutti troppa paura del silenzio.

Cos’è rimasto di quel Live Aid?

L'entusiasmo, la commozione. Il sogno. Quando guardi, o anche solo ascolti, i pezzi del Live Aid cogli le imprecisioni. Imprecisioni che oggi infiammerebbero letteralmente i social. E invece chi se ne frega. E chi se ne fregava, allora! Resta quindi, nonostante le inevitabili sbavature, un messaggio musicale forte e coraggioso: proviamo a cambiare le cose.

Oggi ipotizzare di cambiare le cose attraverso la musica suona come un’utopia. La musica può ancora incidere sulla collettività e non solo sui singoli individui?

La musica è la didascalia dei tempi. La musica racconta i tempi nei quali viviamo o in cui vorremmo vivere. Quando guarda avanti spesso non è compresa. Quando guarda ai tempi in cui viviamo sono i più giovani, in genere, ad apprezzarla di più. E allo stesso tempo c’è tutta una parte del mondo – gli adulti, soprattutto – che invece non la capisce perché generazionalmente è legato ad altro, ai messaggi collettivi precedenti. Credo quindi che sì, a costo di scontentare qualcuno, ancora oggi la musica abbia la possibilità di parlare alla collettività. Il problema è ciò che intende dire. Sting, ad esempio, in varie interviste dell’epoca, ha semplicemente detto: “Dobbiamo dare di più”. Non so se oggi un’idea così limpida e diretta possa essere facilmente compresa e condivisa.

Il Live Aid è stato anche un modo, per l’industria, per celebrarsi e fare un censimento dei big al proprio interno? Su quei palchi c’era tutto il mainstream dell’epoca…

Sì. Ed è stata anche l'occasione per rimettere insieme i Led Zeppelin, Black Sabbath, The Who, Status Quo. Però va sottolineato che tutti I musicisti che calcarono i due palchi si esibirono gratuitamente. Senza soundcheck né prove. L’evento diede grande spinta a un’industria che, dopo i fasti degli anni ’70, stava avvertendo qualche cedimento. I Queen, per esempio, prima del Live Aid non se la stavano passando benissimo e si rilanciarono grazie a una performance che resta tuttora iconica. Non avevano niente da perdere, capirono che quello era un palco importante e diedero tutto. Freddie Mercury, consapevole di essere malato, non sapeva per quanto tempo ancora avrebbe potuto cantare o calcare un palco.

Ci sono state esibizioni che avrebbero meritato maggior considerazione?

Per quanto breve – solo un brano, la cover di “All you need is love” dei Beatles – mi piace ricordare l’esibizione di Elvis Costello. Dopo spiegò le ragioni di quella scelta. Non era sicuro di esserci, non era neppure sicuro che sarebbe stato all’altezza. Da sottolineare anche Phil Collins, che conquista entrambe le platee (da Londra vola a Philadelphia, dove si esibisce quattro ore dopo circa, fuso incluso) con una performance “voce più pianoforte”. A Phila, non contento, si sedette alla batteria e suonò con i Led Zeppelin. Una reunion tuttora controversa.

Un aneddotto che puoi condividere con I nostril lettori.

Beh, Eric Clapton ha detto più volte di quanto fosse teso. Diceva di sentire addosso un’incredibile tensione. Raccontò come la tensione salì, dirigendosi verso lo stadio “John F. Kemmedy”, perché Philadelphia era deserta. Non c’era un’anima per strada. Una volta salito sul palco il suo nervosismo addirittura aumentò, perché appena avvicinò la bocca al microfono prese una scossa pazzesca e fece un balzo all’indietro. A quel punto cambiò posizione sul palco, allontanandosi dal microfono. Solo che non sentiva più bene il segnale proveniente dai monitor. Morale: suonò bene, ma a orecchio.

Live Aid libro
La copertina del libro
https://mowmag.com/?nl=1

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