Grugniva quando suonava, grugniva quando era sbronzo. Per questo, un impiegato della Atlantic non lo chiamava Bonzo, lo chiamava the beast. Su quei fusti grossi come barili John Bonham menava come un fabbro. Ma il tocco sulle pelli sapeva dosarlo come pochi. Sta mano pò esse fero e pò esse piuma. Questione di dinamica. Questione di luce e ombra, di intensità, di sessualità, come tutta la musica dei Led Zeppelin. Ascolti Bonzo e senti il suo feeling, il tiro, il groove. Tecnicamente parlando: shuffle.
Ma la tecnica rimaneva la tecnica, il mezzo, e la musica rimaneva la musica: il fine. Bonham suonava in funzione della musica. Di recente si è parlato sui social di rock vero rock finto… cose senza senso insomma. L’Eurovision è uno show televisivo con la musica di sottofondo (in playback). I più anziani ricorderanno il Festivalbar. Lo facevano all’Arena di Verona, se non ricordo male. Stessa roba, un live non live, ma con un pubblico sulle gradinate. E sul tema droga legato alla musica ci arrivo dopo, adesso mi preme dire altro.
Prendiamo la prima traccia del primo discone degli Zeppelin, Good times bad times. Quei colpi di cassa di Bonham sono un vaccino vettoriale: basta un ascolto per produrre gli anticorpi contro la musica barzotta. Non serve nemmeno il richiamo. Sembra il drummer di un James Brown sotto acido. Quei triplets, quei tre colpi dove ce ne va uno. Con una cassa, con un pedale. Ma niente roba da guinnes dei primati o cazzate del genere: era il suo stile funk-soul applicato al rock ‘n’ roll. Pura innovazione. Prima di compiere trent’anni Bonham aveva già fatto tutto, aveva rivoluzionato il modo di suonare la batteria. Per sempre.
Non c’è da stupirsi se Dave Grohl ha scritto: “Quando John Bonham suonava la batteria sembrava non sapesse che cosa sarebbe accaduto da un momento all’altro, pareva sempre sull’orlo di un precipizio. Nessuno ha mai fatto qualcosa del genere e nessuno, credo, ci si avvicinerà mai. È e resterà il più grande batterista di tutti i tempi. Ho passato anni in camera mia – parlo davvero di anni – ad ascoltare le tracce di batteria di Bonham e a cercare di imitarne lo swing, il modo in cui restava indietro sul beat, la velocità, la potenza. Non volevo solo imparare a memoria quel che suonava. Volevo ereditare il suo istinto. Ho tatuaggi di Bonham ovunque: sui polsi, sulle braccia, sulle spalle. Me ne sono fatto uno a 15 anni: sono i tre cerchi che rappresentano il suo simbolo su Zeppelin IV e che erano riprodotti sulla sua grancassa”.
Tralasciando Moby Dick i suoi soli senza bacchette, penso a pezzi come Misty Mountain Hop e Four Sticks. Ai suoi drum fill storti, dispari, ma che non hanno mai niente di artificioso, di studiato a tavolino, suonano sempre - sempre - istintivi, naturali. Da ragazzino, nel periodo in cui cercavo di suonare come Dio (Dio aka Jimmy Page), un giorno decisi di farmi male sul serio e chiesi al mio maestro di allora: vediamo insieme Stairway to Heaven? Oh, quegli ultimi scalini prima del paradiso, quella pausa in mezzo al brano… ma come si conta? Quanto dura quella pausa precisamente? Boh, magia. È perfetta, ma mica lo so quanto dura. Non ho mai verificato, ma forse il timing aumenta leggermente per tutta la durata del pezzo. Magari ha ragione Plant: è Kashmir il loro apice creativo, però, come disse sempre Plant prima di cantarla al Madison Square Garden nel ‘73 (se ancora non lo avete fatto, guardatevi il film concerto The Song Remains the Same), Stairway to Heaven è la canzone della speranza (“I think this is a song of hope”).
Oppure mettiamo la puntina del giradischi su Custard Pie (che disco è Physical Graffiti? Mamma mia che roba): ah come vien voglia di muovere il culo. E il testo? Tira fuori a parole quello che Bonham scrive con le bacchette. Ho dato un’occhiata in giro e senza perderci troppo tempo ho trovato questo (c’è anche la traduzione). Scordiamoci il politicamente corretto, i test antidroga eccetera. Del resto, come sosteneva quel mandrillo di Benedetto Croce: “L’arte [...] non è e non sarà mai la morale”.
E se la musica totale dei Led Zeppelin è “edonismo vitalista e volontà di potenza” (vedi il simpatico tascabile scritto da T. Snaidero per Mimesis), allora suonare alla Bonham significa suonare con tutti i muscoli del corpo pronti per l’accoppiamento (cit.), significa suonare a cazzo dritto. Non importa in quale disco siamo della loro discografia: dal blues del Delta rubato e stravolto come solo i geni sanno fare, fino a Coda, “there is nothing in their music but sex” (citazione di Susan Whitall su Led Zeppelin: A Psychobiograph).
Quando John Bonham entrò nei Led Zeppelin aveva solo 20 anni ma era già stato il batterista di 12 gruppi diversi. DODICI. Fu Robert Plant a fare il suo nome a Dio (vedi sopra). Plant aveva già suonato con Bonzo in due gruppi. E secondo Plant, oltre ad essere una pressa geniale dietro le pelli, era molto bravo anche a lasciare i gruppi senza che loro neanche se ne accorgessero: “diceva che doveva portare via la batteria per pulirla e invece era l'ultima volta che lo vedevi”. Ma nei Led Zeppelin ci rimase fino alla morte (25 settembre 1980). Se ne andò in un’altra dimensione a soli 32 anni. Causa della morte? Soffocato dal suo stesso vomito dopo aver bevuto una quarantina di vodke.
Che poi uno se lo chiede: perché bere così tanto? Stessa domanda che potremmo farci pensando ad altri geni e talenti della musica. Perché bere o drogarsi? Eh, sarebbe bello dare una risposta sensata. Per tentare di smarcarsi dal trito e ritrito immaginario sex drugs and rock n roll, pesco dal mazzo una carta lontana dai Led Zeppelin, pesco una regina: Nina Simone. Perché Nina Simone si sfondava? Per fare musica sublime? Cazzate. Magari bastasse bere o drogarsi per sputare fuori dischi fondamentali.
Riprendo le parole scritte nel 2015 da Austin Bryant in occasione dell’uscita del documentario What Happened, Miss Simone? prodotto da Netflix.
“Quello che c'è davvero di importante da dire su Nina Simone, e che il documentario riesce a riportare, è che non solo era una musicista geniale, ma una musicista nera geniale. La sua etnicità era un elemento imprescindibile e inequivocabile. Agli inizi della sua carriera, prima che il mondo della musica iniziasse a prendere posizione sulle questioni razziali, il suo aspetto era stato fonte di grossi conflitti interiori. È stato scoperto solo dopo che i suoi diari sono stati resi pubblici. In un appunto senza data, ad esempio, troviamo scritto:
Non potrò mai essere bianca, e sono il tipo di ragazza di colore che incarna tutto ciò che i bianchi odiano, o perlomeno gli è stato insegnato a odiare.Se fossi un maschio avrebbe meno importanza, ma sono una ragazza, e sono costantemente sotto gli occhi spalancati di un pubblico pronto a giudicarmi.
I suoi diari erano privati, le sue canzoni e i suoi concerti no. L'attentato alla chiesa di Birmingham, Alabama del 1963 aveva cambiato la sua vita - e quella di moltissimi afroamericani - per sempre: Nina scrisse Mississippi Goddamn in un'ora, di getto. A quei tempi non capitava spesso che in America uscissero canzoni con delle parolacce nel titolo, né con delle condanne della violenza contro i neri così accese nel testo. Le successive controversie catturarono l'attenzione dei giornali, ma la stella di Nina Simone crebbe ancora più alta e luminosa.
Eppure, mentre diventava amica di tutti gli esponenti principali del movimento per i diritti civili, suonando alle manifestazioni di protesta di Montgomery e Selma, la sua vita privata si andava sgretolando. Il documentario mostra che, durante gli infiniti tour lei scriveva a se stessa: ‘Per dormire mi servono delle pasticche e per salire sul palco me ne servono delle altre’. Simone fece per moltissimo tempo uso di droga alcool e sesso come strumenti per tenere sotto controllo il proprio stato mentale, senza riuscirci quasi mai. Si trovò anzi ad affrontare tanta violenza fisica quanta mentale: il suo primo marito Andrew Stroud, ex-segente del NYPD divenuto suo manager, la picchiava molto di frequente, spesso senza motivo né sosta. Oltre a ciò, esercitava un controllo maniacale sulla sua vita”.
Adesso torniamo a Bonham. Perché Bonzo beveva in quel modo pur essendo il batterista della rock band più importante di tutti i tempi? Pur essendo consapevole di essere lì dove doveva essere per definire un genere per sempre, per scrivere la storia. Perché si è trovato a gestire una situazione più grande di lui? Perché (come è risaputo) teneva così tanto alla sua famiglia e in fondo voleva rimanere con sua moglie e suo figlio, con le sue vacche e le sue auto? Chissà.
Di sicuro, ci sono numerosi aneddoti sulla generosità dell'uomo di famiglia, e altrettanti aneddoti su Bonzo in botta. Tipo quella volta in cui invitò Glenn Hughes a fare un giro sulla sua nuova macchina. In breve, salgono, piede pesante sul gas e Bonzo alla fine va a schiantarsi contro un muro. Escono più o meno illesi e Bonham abbandona la macchina piantata sul muretto. Il giorno dopo Hughes lo incontra su una nuova macchina e gli chiede che fine avesse fatto quella del giorno prima, e Bonham gli risponde: "Quale macchina?".
C’è anche uno stralcio dell'articolo del Corriere della Sera del 5 luglio 1971 che sintetizzo di seguito tagliando qua e là. Un trafiletto per annunciare il concerto che gli Zeppelin avrebbero dovuto tenere in Italia il giorno successivo in coda al Cantagiro, dopo l'esibizione dei Ricchi e Poveri (!) e dei Vianella (?), se non fosse stato interrotto dai lacrimogeni dei celerini: “Ieri sera all'aeroporto di Linate sono arrivati solo due: il biondo chiomato Robert Plant e il turbolento John Bonham che nei pochi minuti di transito nella stazione è riuscito a combinarne più di Gianburrasca. Si è fatto trasportare dai tappeti mobili dei bagagli, ha sottratto il berretto ad un addetto all'aeroporto, ha cercato di ingaggiare una colluttazione con un fotografo e dulcis in fundo prima di salire su un'auto di grossa cilindrata che lo portava ad un albergo cittadino ha sferrato una poderosa pedata al carrello portavaligie suscitando le vibrate rimostranze di un impiegato”.
Poi ce n’è un altro che mi viene in mente, lo ha raccontato Ringo Starr durante un’intervista: “Quando mi sono trasferito a Los Angeles negli anni ’70 e i Led Zeppelin passavano in città, Bonham aveva questo chiodo fisso per cui doveva prendere l’auto, venire a casa mia, prendermi e buttarmi in piscina. E lo faceva davvero. Poteva essere giorno o notte, ma lui arrivava e mi buttava in piscina”.
Ancora un altro, l’ultimo: “Avevamo ottenuto un backstage pass per le due serate del festival di Knebworth [1979, nda]. Bonham arrivò insieme a suo figlio e si sedette alla batteria per controllare l'accordatura. L'impianto di amplificazione non era ancora acceso, e lui fece qualche acciaccatura: il palco iniziò a tremare, io e John Deacon ci guardammo negli occhi, e ci abbracciammo”. Roger Taylor (Queen).
Per chiudere aggiungo solo una cosa: lasciamola libera la musica, non tormentiamola con tante polemichette e cazzate inutili. Oppure fate come cazzo volete, ma prima di tutto godiamocela.
Di seguito vi lascio qualche link interessante.
- Perché John Bonham? Qui.
- John Bonham top tracks. Qui.
- John Bonham: le tracce di batteria isolate. Qui.
- Led Zeppelin - Kennedy Center Award Broadcast - Parte 1 di 2. Qui.
- Led Zeppelin - Kennedy Center Award Broadcast - Parte 2 di 2. Qui.
- Jimmy Page, Robert Plant e John Paul Jones ospiti del David Letterman Show. Qui.
- Bonzo. Il background, le influenze stilistiche, il micro-timing, il groove spiegato nel dettaglio, con guide all'ascolto di vari brani estratti dalla discografia dei Led Zeppelin. Il video è qui.