Bob Dylan compie oggi 80 anni e per celebrarlo abbiamo chiesto a chi, per atteggiamento musicale e di denuncia sociale, ne ha sempre ricalcato le orme. Ci riferiamo a Edoardo Bennato, che con chitarra a tracolla e armonica alla bocca, ha scritto alcuni deI grandi capolavori più amati. Anche lui un menestrello, come l’omologo americano, ci ha sempre cantato pregi e difetti (più i secondi dei primi) del nostro meraviglioso e contraddittorio Paese. Con il “menestrello di Duluth”, poi, ha condiviso anche l’impresario e lo ha conosciuto nel periodo in cui si era convertito alla religione cristiana. Attraverso Dylan, abbiamo ripercorso con Bennato la parabola artistica e umana di una pieta miliare della musica mondiale arrivando ai giorni nostri, con la vittoria dei Maneskin all’Eurovision che ci interroga sulla possibilità per gli artisti italiani di poter avere finalmente un impatto oltreconfine, non solo per la melodia ma anche per un genere tutto anglosassone come il rock.
Qual è stato il tuo primo approccio con Bob Dylan?
Ho preso come riferimento Dylan da ragazzino. Un giorno, lessi un articolo in cui John Lennon dichiarava: “Noi abbiamo molti riferimenti in passato dall?America, fra i quali Chuck Berry, Jerry Lee Lewis, però prendiamo esempio da Bob Dylan”. Allora, corsi al negozio della Ricordi di Napoli chiedendo se avessero un album di questo Dylan e me lo fecero arrivare dopo un mesetto. Lo ascoltai e ricordo mia madre dalla cucina che urlava: “Ma cos’è questa lagna?”. Per i canoni del tempo era impensabile.
In che modo ha influenzato la tua musica?
Lo presi come riferimento nelle ballate, anche se poi il mio vero maestro è stato John Hammond, sempre con chitarra e armonica blues. Grazie a lui feci i primi pezzi “punk” eversivi, dove sfottevo addirittura il presidente della Repubblica. O più recentemente come nell’album “Non c’è” è presente il brano Mascherate, che ha quegli stessi schemi. Pensa che il padre di Hammond con un registratorino portatile registrò i vecchi bluesman del delta del Mississipi e per questo lui si innamorò del blues, così diventò un grande. Quando è venuto in Italia abbiamo suonato insieme.
Però nelle ballate, mi dicevi, Dylan è molto presente.
Come no, per esempio in Venderò, oppure in L’isola che non c’è. Ma ancora in La fiera dei buoni sentimenti, oppure La realtà non può essere questa e anche in Pronti a salpare. Sono tutte canzoni dylaniane, poi diventate bennatiane. Arpeggio di chitarra e armonica in cui i testi sono fondamentali. Dylan in questo senso è un riferimento assoluto.
Se non sbaglio, vi siete anche incontrati in una occasione, giusto?
Esatto, a Basilea nel periodo in cui avevamo lo stesso impresario. Era il periodo in cui lui faceva concerti ispirati ai canti spiritual, perché aveva cambiato religione e nei camerini mi chiese: “Cosa ne pensi sulla mia idea di dedicare un concerto al Papa?”. E io gli risposi: “Mi sembra davvero una buona idea”. Mi sembrava strano che volesse il mio parere. Dopo qualche anno, fu ricevuto dal Papa inciampò, da tanto era emozionato.
Sull’artista Dylan ci sono pochi dubbi, sull’uomo Dylan invece in tanti si chiedono da sempre come mai sia così schivo. Tu che lo hai conosciuto che idea ti sei fatto?
Dylan è un personaggio geniale, il più forte di tutti in senso assoluto. Non a caso i Beatles hanno preso da lui, i Rolling Stone si chiamino così in riferimento a Like a Rolling Stone. Però è vero, Dylan è un introverso, forse nel tempo lo si considera persino un po’ antipatico. Soprattutto non si concede al pubblico. Ma non era così, lo è diventato perché fin dalla prima ora ha capito che il mondo della musica è pieno di personaggi strani e che le masse sono indottrinate dai media, facile sono preda degli imbonitori. Ricordo quando entrò nel giro della musica folk e un giorno a un importante festival il pubblico gli si rivoltò contro solo perché si presentò con la chitarra elettrica e in una formazione più rock. Da quella contestazione, prese atto che non poteva fidarsi di nessuno e che i nemici erano sempre in agguato. Diventò schivo, soprattutto nei confronti del pubblico perché, ripeto, purtroppo le masse sono troppo spesso facile preda, nel bene e nel male, dei luoghi comuni.
A proposito di rock, in questi giorni si fa un gran parlare della vittoria dei Maneskin all’Eurovision, dopo che si sono aggiudicati anche il primo posto a Sanremo. Tu come hai reagito?
Questi ragazzi li avevo già notati qualche tempo fa e sono gli unici che mi piacciono in questo momento. Sono contento che abbiano vinto. Ma la questione è: come uscire dal ghetto italico? C’è poco da fare, perché ancora oggi i ragazzini inglesi possono vendere i loro dischi in tutto il mondo, mentre i ragazzini italiani no. Speriamo che grazie a loro sia possibile diminuire il gap in questo senso. Ma quel che mi preoccupa è il baraccone musicale italiano.
A cosa ti riferisci?
Quando si parla di “baraccone musicale italico” non si può che far riferimento a Sanremo. Ti faccio un esempio, che riguarda anche Bob Dylan. Solitamente all’Ariston bisognerebbe presentare dei pezzi inediti. Eppure, nel 1967 ci fu qualcuno che si presentò con una canzone che è identica nella musica e nel testo a un brano di Dylan. Lo riprese paro paro e lo presentò al festival. Forse è il plagio più eclatante nella storia della musica italiana. Sai quale fu la reazione? In Italia nessuna e in America idem, non fecero una piega. È come se arrivasse oggi un ragazzino dal Gambia e si presentasse cantando: “Quella sua maglietta fina, tanto stretta al punto che mi immaginavo tutto…” e nessuno si accorgesse che è di Baglioni. Ecco, mi sembra che il rapporto fra la musica italiana e quella anglosassone sia più o meno ancora questo.
Insomma, è ancora difficile che una canzone italiana abbia un impatto a livello globale.
Noi ci troviamo sempre ai confini. Gli anglosassoni nel rock ci considerano dei replicanti o degli imitatori. Quando dall’America arrivarono Elvis Presley, Chuck Berry, Fats Domino, Little Richard, Jerry Lee Lewis, i ragazzini inglesi che aspiravano al successo potevano recepire tutto, noi italiani solo la musica ma non il testo. L’emblema fu Celentano, il più grande che ironizzando con il finto inglese riuscì da quella lezione a trarne una vitalità e una forza immense. Per tanti altri è stato soltanto uno scimmiottamento. Finora abbiamo esportato soltanto Modugno, Pavarotti e Bocelli, non c’è una incidenza della musica italiana nel mondo, a parte tra gli emigrati. Persino gli scandinavi o gli australiani hanno più possibilità di noi.
Quindi, prima dovremmo cambiare l’atteggiamento in Italia per poi avere più impatto all’estero?
Sì, però Sanremo resta l’emblema. Più è importante Sanremo e più le masse giovanili sono apatiche. Basta ripercorrerne la storia. Dopo il grande exploit della fine degli anni ’50 in cui Modugno divenne un simbolo nel mondo cantato in italiano, tanto che Elvis incise un suo pezzo, Sanremo ha conosciuto il suo apice nel 1965 con Bobby Solo e Una lacrima sul viso. Poi negli anni ’70 qualcosa è cambiato, sono arrivate altre sollecitazioni, nacquero i festival alternativi politicizzati, le masse giovanili vennero “indottrinate” in modo diverso. E così nel ’74-’75-’76 la Rai addirittura decise di non collegarsi più in diretta da Sanremo. Si era ridotto a una recita parrocchiale. Poi negli anni ’80 con un pezzo di Battiato arriva la vittoria di Alice e in seguito la vittoria di Ramazzotti e Sanremo riprende vita. Quindi è un evento che segue gli input culturali, sociali, politici del paese, in buona sostanza è sempre quello lo specchio di quel che succede in Italia.