Non è pubblica, anche se le centinaia di numeri inseriti – ciarlieri o silenti che siano – non la possono qualificare come privata, ma la chat WhatsApp “Rinascimento Dissoluzione” made in Vittorio Sgarbi e Morgan rischia di diventare per il governo di Giorgia Meloni ciò che è la Bobo tv è per il calcio. Nata per “arruolare geni” è già un’accozzaglia di oltre cinquecento numeri, alcuni li inserisce, altri li perde, di certo lì dentro qualcuno discute e fa discutere, mentre molti osservano, silenziano, controllano, sorridono. “Rinascimento Dissoluzione” non produce resoconti dattiloscritti né verbali, eppure regala perle, veicola inutilità e insieme racconta mondi e propone consigli. Un po’ arte un po’ parte, con la consapevolezza che di lì può uscire tutto.
E così, tra provocazioni e visioni, il leghista Claudio Borghi, rieletto al Senato in Toscana, in un messaggio - dove tagga anche il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano - invita in rima baciata al basso profilo, perché questo governo, sostiene, “è una grande opportunità”, ma occhio ai trappoloni, e per questo “suggerisco sommessamente di non partire a razzo perché invariabilmente si finisce a cazzo”. Preoccupato di scivolare su bucce di banana, perché non c’è niente che fa godere di più un sistema “che ci odia come il fornirgli su un piatto d'argento la scusa per incenerire la novità”. Un po’ come dire: c’è un premier – anzi: il signor presidente del Consiglio Giorgia Meloni – e ci sono i ministri, state calmi se potete. “Calma e gesso”, “trattenetevi”, e più che leghista sembra quasi un gergo adatto alla rivista andreottiana Concretezza.
Quasi a dire: non prendete iniziative, non ora: “Se (faccio un esempio estremizzante) avete voglia di fare una mostra di cazzi, aspettate a farla. Magari sarà la più geniale mostra del secolo ma intanto vi montano una polemica come solo loro sanno fare, la bloccano e poi vi cacciano”. Da dove? Dagli agognati ministeri, dove entrano i grigi funzionari, quelli che cose del genere non le penserebbero mai. L’esempio è “estremizzante”, scrive Borghi, ma in realtà c’è chi l’ha già fatta una mostra così, e addirittura ha avuto un successo tale che ne hanno scritto in quasi tutto il mondo. Segno che forse tanto estremo più non è, ma probabilmente nemmeno troppo adatto a questo governo.
Los Angeles 2016: Whitney Bell, attivista femminista, s’inventò l’installazione, nello spazio di un galleria, di una stanza che riproponeva il suo salotto, con alle pareti circa 200 foto di peni, tutte incorniciate. “I didn’t ask for this: a lifetime of dick pics”, ovvero: una mostra sulle molestie, perché le immagini sviluppate e riprodotte erano quelle, mai richieste, che la donna aveva ricevuto negli anni precedenti sul suo telefonino (o a quello di altre donne) da parte di contatti vari ed eventuali. Un’installazione che funse da pretesto per una mostra in cui una trentina di artisti esposero altrettante tele a tema, un’esibizione che peraltro pochi mesi più tardi venne portata anche a San Francisco. Oltre all’aspetto attivista, c’era anche una causa politica dietro, perché una parte dei proventi vennero destinati al Center for reproductive rights, organizzazione legale che stava combattendo un caso della Corte Suprema (ai tempi il presidente degli Stati Uniti era Donald Trump) per fermare le TRAP laws che, per farla breve, erano leggi a forte carattere antiabortista.