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Cosa è rimasto di Donnie Darko
vent’anni dopo

  • di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

23 novembre 2021

È assurto allo status di cult grazie al passaparola, ben prima dei trend su Twitter. E tra noi tardo adolescenti c’era chi s’identificava nella storia tormentata tra Donnie e Gretchen, nella perenna insoddisfazione che è la condizione necessaria per essere adolescenti, nell’età in cui è permessa l’infelicità come la felicità più abissale

di Maria Eleonora Mollard Maria Eleonora Mollard

Il 2001 è stato un inquietante torpore, il risveglio senza nessuno accanto, i postumi terrificanti dopo la sbornia di fine anni ‘90. La genialità di Richard Kelly sta nell’aver colto il disagio di un millennio appena iniziato e già desideroso di suicidarsi o, peggio ancora, di indulgere nella nostalgia. Allora perché non fare di Donnie Darko, il suo primo lungometraggio (di tre), l’antesignano – involontario - di tutte le operazioni di retromania che oggi, a distanza di vent’anni esatti, saturano il mercato. Donnie Darko si svolge nell’ottobre del 1988 eppure, al di là della colonna sonora dove troviamo dagli Echo & the Bunnyman ai Joy Division passando per gli INXS, si capisce che è un film del 2001. E questo suo ‘difetto’, in un certo senso, è andato a giustificare, così, i futuri prodotti seriali e cinematografici basati più su una versione distorta, quasi a sentimento, di un’epoca che si è testimoniata in parte. Kelly è del 1975.

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Donnie Darko (Jake Gyllenhall) è il figlio mezzano di una tipica famiglia WASP americana, seguito da una terapista che non lo capisce, e il suo disturbo (schizofrenia?) controllato dagli psicofarmaci. Dopo essere sopravvissuto alla caduta del motore di un aereo, grazie a un episodio di sonnambulismo dove incontra il coniglio antropomorfo (super creepy) Frank - che sembra la versione malata del coniglio Harvey nel film cult con James Stewart - e l’arrivo di Gretchen (Jena Malone) a scuola, il filtro che Donnie usa per relazionarsi col mondo pare dissolversi. Inizia a manifestare un’acida ironia e tutta la sua contrarietà al réclame fasullo che è la ricerca della felicità nella società, in particolar modo quella americana. Dai guru manipolatori (qui troviamo un ciarlatano pedofilo interpretato da Patrick Swayze) ai bulletti della scuola; dagli insegnanti svogliati e incapaci, alla strana Roberta Sparrow (Nonna morte) col suo libro sui viaggi nel tempo, fino agli stessi parenti a di Donnie che si piegano al vademecum della buona famiglia americana.

28 giorni, 6 ore, 42 minuti e 12 secondi, è il countdown alla fine del mondo e chi non lo conosce tra noi, giovani nei noughties, che spacciavano il film scaricato da Emule manco fosse cocaina purissima. È un film del 2001 sì, ma è anche vero che l’uscita in sala, in Italia, avvenne nel 2004 dopo l’accoglienza positiva della versione Director’s Cut alla Mostra del Cinema di Venezia, tre anni dopo la presentazione al Festival di Torino. E con la distribuzione non proprio capillare, almeno per chi è cresciuto nelle zone periferiche italiane, la soluzione era arrangiarsi in modi non totalmente legali. Donnie Darko è assurto allo status di cult grazie al passaparola, ben prima dei trend su Twitter. E tra noi tardo adolescenti c’era chi s’identificava nella storia tormentata tra Donnie e Gretchen - altro prodotto disfunzionale del suo ambiente -, nella compagna sovrappeso perdutamente innamorata del protagonista, nella perenna insoddisfazione che è la condizione necessaria per essere adolescenti, nell’età in cui è permessa l’infelicità come la felicità più abissale.

Donnie Darko è una storia d’amore, è la zona liminale tra l’infanzia e l’età adulta, è una riflessione sui rimpianti, sulle prime domande esistenziali tenute chiuse nelle private stanze del proprio animo: del perché si vive, del chiedersi se la vita delle persone che ami sarebbero migliori se tu non esistessi. Forse Donnie Darko è un modo di parlare di tutto questo con la scusa di fare un film, sicuramente diverso, sulla filosofia dei viaggi nel tempo e, infatti, sulla scia dell’opera di Kelly esce, nel 2004, il dimenticato, ahimè, The Butterfly Effect. Richard Kelly parla dei giovani come non si faceva dai tempi di John Hughes, gli anni ‘80 per l’appunto, privandoci però della sua leggerezza per scaricarci tutto il carico di un nuovo contesto storico, nato stanco e con una ferita insanabile.  

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Donnie Darko è figlio del suo tempo e non è un caso che quell’anno sia uscito Ghost World e due anni prima Il giardino delle vergini suicide, quasi a volere riportare al centro della scena la periferia americana, luogo di grandi e piccole morti, incubatrice di mali interiori striscianti. Jake Gyllennall è il volto perfetto del giovane alternativo che, nel migliore dei casi si annulla sotto psicofarmaci, nel peggiore esplode come nel massacro della Columbine. Uscito due settimane dopo l’11 settembre, il film incanala tutto il disagio che non si riusciva più a metabolizzare, non dopo una tragedia simile e di come, fondamentalmente, i concetti stessi di generazione e adolescenza stessero scomparendo. Donnie Darko è l’orizzonte in cui abbiamo voluto vivere, l’ironico destino dei giovani che da perenni outsider sono ‘troppo occupati a morire’ prima che arrivino i vent’anni: per evitare la perdita dell’innocenza, la rassegnazione, la quotidianità strascicata e un cinismo che, finita la gioventù, è ben lontano dal vedere nella perdita di un amore la fine del mondo.

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