La Crusca boccia schwa e asterischi nei documenti di natura giuridica, riconfermando lo scetticismo mostrato in passato su alcune derive del linguaggio inclusivo. Ma si fa un passo avanti: l’introduzione del femminile accanto al maschile e l’uso delle professioni declinate al femminile. Per molti una scelta poco efficace e tanto reazionaria quanto non fare nulla (in fondo non fa che incrostare ulteriormente il concetto di binarismo di genere). Per alcuni una scelta di buon senso che potrebbe essere il giusto compromesso anche fuori dal discorso giuridico e degli atti ufficiali. Abbiamo chiesto allo scrittore Enrico Dal Buono, autore del recentissimo Ali (La nave di Teseo, 2022), penna aliena interessata agli spazi della possibilità e della libertà che vede nelle tue parti in lotta due visioni, in un modo o nell’altro, che puntano al conformismo. E ammonisce chi fa letteratura per propagandare queste battaglie: “La letteratura non è il Libretto rosso di Mao”.
La Crusca ha provato a mettere la parola fine alla diatriba sul linguaggio inclusivo. Sì all’uso del femminile accanto al maschile, no alla schwa e agli asterischi (e altre desinenze “nuove”). Le sembra una scelta saggia?
Al di là di ambiti specifici, vedi gli atti giudiziari, non credo che la Crusca né nessun’altra istituzione possano mettere fine a nulla che riguardi il linguaggio in assenza di un apparato poliziesco che sorvegli ogni scambio verbale tra le persone. Solo i social network, oscurando i post in presenza di termini non graditi, influenzano il modo di parlare degli individui, o per meglio dire fanno sì che gli individui parlino in un modo in pubblico, e cioè sui social, e in un modo in privato, e cioè offline.
Nello specifico la decisione della Crusca riguarda gli atti giudiziari e dunque dei documenti ufficiali. Questo distinguo è importante o sarebbe bene applicare il giudizio dell’Accademia e tutta la lingua?
Credo sia importante per le ragioni di cui sopra. Non dimentichiamoci che qualche anno fa la Crusca promosse il termine “petaloso”, che tutt’al più è rimasto nell’immaginario collettivo come una pietra miliare della ridicolaggine, come una cantonata, come i Jalisse della linguistica.
L’uso del maschile e del femminile potrebbe essere di per sé un problema per la letteratura?
Un problema sarebbe se per qualche guerra o crisi economica finisse la carta per stampare o l’energia per ricaricare i dispositivi elettronici per la lettura, ma le “i” e le “e” in quanto tali sono una fonte rinnovabile di senso.
C’è chi parla di conservatorismo. Ma ha senso rispetto a una lingua dividersi tra “partiti” più o meno progressisti?
Ha senso nella misura in cui aiuta chi si schiera da una parte o dall’altra ad acquisire popolarità, ad aumentare le interazioni sui propri profili social, a vendere libri. Il manicheismo è la vera religione della nostra era. Per autopromuoversi bisogna dimostrare con assoluta evidenza all’utente, nel breve tempo che l’utente ti concede ripiegato sul cellulare mentre viaggia in metro o fa la spesa, se si fa parte della sua setta o di quella rivale.
Come vede in generale la battaglia intorno al linguaggio inclusivo?
Come tutte le battaglie. Si basano sulla delegittimazione dell’avversario e dopo un po’ la gente non si ricorda nemmeno più perché sta lottando, l’importante è vincere, costi quello che costi, o ancor meglio guadagnarsi il bastone da maresciallo e campare di rendita.
Una tesi forte tra i difensori delle desinenze neutra è l’idea che il genere sia in qualche modo “liquido” ed è giusto che la lingua si adatti a un dato di fatto. Le cose stanno davvero così secondo lei?
Se le cose stanno così lo vedremo. La lingua è un organismo vivente, con un proprio destino imprevedibile, con una propria volontà che altro non è che la somma delle volontà di milioni di persone che ogni giorno compiono migliaia di scelte linguistiche: qualcosa, grazie al cielo, di incalcolabile. Prevedere a tavolino che ne sarà di lei, della lingua, è come leggere la mano a una persona per prevedere se troverà l’amore, se il suo amore sarà biondo o moro, eccetera.
La letteratura cosa può suggerirci riguardo alle possibilità della lingua anche su questo tema?
Non credo che la letteratura in senso stretto debba proporsi alcun compito etico, quale quello di migliorare i lettori, di istruirli, di rieducarli. Un libro che si pone come obiettivo quello di promuovere il conservatorismo o il progressismo non è un romanzo ma un Libretto rosso di Mao. La letteratura è arte e il suo compito è prima di tutto quello di essere bella. La letteratura forza la lingua, la torce, la inventa. Più riesce a sottrarsi all’ideologia e ai conformismi, di una parte e dell’altra, più riesce a essere indipendente, al servizio di se stessa e della storia specifica, più è probabile che quello che inventa, sul lungo periodo, influenzi anche l’immaginario collettivo e il modo di parlare delle persone, che spesso restano inconsapevoli dell’origine di un neologismo. Penso per esempio all’espressione ridere “a crepapelle”, che usano tutti pur senza sapere che viene da Pinocchio. O all’immaginario “kafkiano”, spesso utilizzato a sproposito. Kafka ha ricreato un mondo nuovo, che può servire da specchio per il nostro, certo, ma qual era il “messaggio” di Kafka? Oppure, qual è il “messaggio” della Gioconda? Sorridi alla vita, ma non troppo?