La notizia è di quelle che potrebbero dare il via a tanti sbocchi diversi. Se ne potrebbe parlare come mera vicenda di cronaca, chiamarla cronaca nera farebbe oggettivamente ridere. Se ne potrebbe dare una versione romanzata, magari citando, ovviamente giocando di iperbole, Lutring, il solista del mitra, anche se qui di armi nascoste dentro custodie di violino non se ne parla. O più semplicemente si potrebbe sottolineare, certo giocando di enfasi, come la nostra società sia diventata sempre meno in cline a assecondare le esigenze di chi la anima, se è vero come è vero che Abbie Hofmann, intellettuale della controcultura americana, ha intitolato nel 1970 una sua opera, mitica, Ruba questo libro, ma ancora oggi rubare un libro viene ovviamente considerato un reato. Questo nonostante si continui a leggere, anche con un certo disprezzo da parte di chi scrive quel tipo di articoli, come se la regoletta non valesse anche per questi microtesti che trovano spazio sul web senza di fatto incrociare lettori che vi prestino più che un minimo di attenzione, tempi di lettura media che stanno tra i dieci e i venti secondi, figuriamoci, di come in Italia ci sia molta più gente che scrive di quanta non ce ne sia che legge, oltre sessantamila titoli pubblicati ogni anno, una parte neanche irrilevante dei quali che non vende neanche una copia. Senza perdersi in strade laterali, ora torno sulla via principale, la notizia data per certa che degli ottantadue, ottantadue, ripeto, titoli selezionati per il Premio Strega, solo otto abbiano venduto più di cinquemila copie, ventisei le mille copie e ben quarantotto non abbiano ancora toccato le trecento copie vendute, ci dice qualcosa, ce lo grida in faccia, in realtà, di piuttosto allarmante. Nei fatti, giorni fa in piazza Gae Aulenti, il volto nuovo della Milano del futuro, un tipo è entrato nella Feltrinelli Red, un posto atto a vendere libri come a farsi un aperitivo, più indicato per quest’ultima attività che per la prima, vista la scarsità di titoli presenti, quasi tutti di “cassetta”, ha iniziato a girare per i banconi prendendo titoli e poi, invece di recarsi alla cassa, in fila con gente che ordinava Spritz o caffè americano, è andato verso l’uscita, scappando con quella che da quel momento è diventata “la refurtiva”. Libri per un valore di duecentotrenta euro, questo riporta la cronaca. Perché il tipo è stato subito fermato da un tizio della security, che ha però spinto a terra partendo per una breve corse. Breve corsa interrotta dalla polizia, che in una città che viene, in maniera ovviamente esagerata e pretestuosa, raccontata come sempre più violenta e invivibile, la stessa zona di piazza Gae Aulenti, specie la parte della biblioteca dei boschi, viene considerata da molta parte della cittadinanza off limits dal tramonto all’alba, a causa di gang di extracomunitari che farebbero, questo vuole la vulgata, il bello e il cattivo tempo, si suppone specie il cattivo tempo, ecco, breve corsa interrotta dalla polizia che, in una Milano non a caso raccontata come Gotham dallo stesso sindaco Beppe “Narciso” Sala, non ha di meglio da fare che arrestare un ladro di libri. Roba da film d’essai francese, Daniel Auteil a vestire i panni del protagonista. Ho già disseminato il racconto di svariate suggestioni. Lo sottolineo non per flexare, sono bravo a disseminare i racconti del cazzo che mi pare, è il mio mestiere farlo, quanto piuttosto per fare un pit-stop atto a farmi fare il punto della situazione prima di andare oltre, la linearità, qui faccio il contrario del flexare, evitando però, alla maniera di Chiara Ferragni, di dare a voi la colpa, dicendo “non mi avete capito”.
A Milano la cronaca cittadina è stata per così dire animata dalla notizia di un tizio che è stato arrestato non per aver rapinato una banca, anche se giuro che i quotidiani online hanno parlato di rapina, non di furto, come se il tizio avesse esibito una qualche arma, certo, di rapina intellettuale, ma pur sempre di rapina, a Milano la cronaca cittadina è stata per così dire animata dalla notizia di un tizio che è stato arrestato non per aver rapinato una banca, ma per aver rubato libri in una Feltrinelli, per un valore di duecentotrenta euro. Avesse rubato cibo al supermercato, immagino, la storia avrebbe poi incontrato la figura di una qualche anima pia, in genere è sempre il tutore della legge chiamato a mettere le manette al ladro, lì a pagare di tasca propria il maltolto, anche i poliziotti hanno un’anima, sotto il casco e dietro lo scudo coi quali inseguono, manganello alla mano, i giovanissimi studenti, ma stavolta si tratta di libri, se rubi dei libri sei un rapinatore, romantico e tutto, vedi il Lutring citato in esergo, ma pur sempre uno che delinque non per giusta causa, va bene osannare il pane e le rose, ma rubare rose è da fessi. Questo il primo punto. Ma è anche stato detto, en passant, di come in Italia, oggi, di libri se ne stampino un fottio, uno vale uno, la regoletta aurea dello web, sembra essere tracimata presso l’editoria, con tutti che hanno una storia fondamentale da raccontare, spesso la propria storia personale, del resto autofiction e memoir sono il genere letterario più capaci, oggi, di rappresentare lo zeitgeist. Tutti pubblicano il famoso libro che un tempo sarebbe legittimamente rimasto nel cassetto, ma nessuno, attenzione attenzione, legge. È infatti sempre di questi giorni la notizia, in coda all’elenco degli ottantadue libri selezionati per il Premio Strega, di come di quegli ottantadue libri solo una minimissima quantità ha venduto un numero non dico importante, ma almeno rilevante di copie, ottomila, oltre la metà fermo al palo (neanche trecento copie vendute). A conferma del tutto, benedetto Iddio, la notizia che anche il libro di Ilary Blasi, compendio della serie Netflix Unica, anch’esso lì a raccontarci la storia di corna e addii con Francesco Totti, titolo Che stupida, la mia verità, duecentoventotto pagine, edito da Mondadori, non avrebbe superato le ottomilacinquecento pagine, nonostante sia stato strillato e lanciato praticamente ovunque. Ottomilacinquecento copie che, volendo, potrebbero essere anche la prova provata di come la fine del mondo sia imminente, e forse anche salvificamente meritata, perché, a volerla leggere in controluce, ci dice che ci sono almeno ottomilacinquecento persone che hanno acquistato quello che è il frutto di una stortura non tanto editoriale, l’editoria è un’industria e l’industria, il mercato, asseconda la domanda tanto quanto crea l’offerta, quanto piuttosto dell’umanità tutta: il libro di un personaggio pubblico che a stento riesce a parlare un italiano decente, per di più il libro nel quale racconta una vicenda di gossip, facendo di un fatto privato, volendo anche tragico, una farsa. Ottomilacinquecento copie che, però, sono un flop editoriale, perché indubbiamente per scrivere questo libro, Gian Arturo Ferrari che della Mondadori è stato a lungo direttore supremo ha chiamato questo tipo di libri “libroidi”, forse a ragione, per scrivere questo libroide Ilary Blasi si sarà pappato un gran bell’anticipo, anticipo non restituibile che ovviamente graverà sui bilanci della Mondadori, fatti loro, ma che nega una previsione di vendita che chiunque in editoria ci abbia lavorato avrebbe comunque facilmente pensato ben più alta. E qui veniamo al terzo punto di questo strano percorso, sghembo, tra libri che non si comprano più e libri che vengono rubati.
Arriviamo al terzo punto. Come è noto, stiamo per parlare di canoni, il terzo punto di una qualsiasi struttura atta poi a portare a una conclusione, è in genere quello decisivo. Quando si vogliono fare esempi non ci si limita mai a due, ma sempre a tre, funziona così, è retorica. Questo terzo punto, ahivoi, ahimè, esce giusto un attimo dal campo dell’editoria, anche se ci rientra subito dopo, è questione di attimi. Si sta facendo giustamente un gran parlare, in questi giorni, di fragilità emotive e mentali. Se ne sta facendo un gran parlare a partire dalle vicende personali, personali e pubbliche, di alcuni giovani artisti che hanno deciso di sottrarsi a una modalità considerata devastante, troppe pressioni, la richiesta di una performatività e iperproduttività a livelli di sfruttamento, nessun interesse per la persona e anche per l’arte. Protagonisti di queste storie giovani artisti nel campo della musica, tutti abbiamo letto di Sangiovanni e Mr Rain, cui si stanno unendo un coro sempre più ampio di nomi, a volte anche di un passato remoto, che mettono sul tavolo le proprie storie. Torniamo nell’alveo dell’editoria. Proprio a partire da queste vicende, che non hanno mancato di colpire al cuore l’opinione pubblica, i personaggi di cui sopra sono molto popolari e il fatto che siano giovani e fragili non può che suggestionare chi incontra quelle notizie di richiesta d’aiuto, o di necessità di fermarsi, in queste ore si è esposto con una vicenda simile lo scrittore Jonathan Bazzi. Lo ha fatto raccontando la propria vicenda personale, per certi versi non troppo distante da quella proprio di Sangiovanni o Mr Rain. Ha scritto, ovviamente sui social, di come l’essere finito in finale allo Strega, sempre lì, col suo primo romanzo, autobiografico, Febbre, gli abbia da una parte regalato una grande e inaspettata popolarità, dall’altra abbia aperto le gabbie di quanti vomitano su chi diventa popolare tutto il proprio odio e le proprie frustrazioni. Ha raccontato, poi, di come quella popolarità si sia tradotta, così gira il mondo oggi, quello dell’editoria come quello dello spettacolo, di qui il parallelo coerente con Sangiovanni e Mr Rain, ovviamente mai citati direttamente, di diventare qualcosa diverso da sé. Bazzi ha parlato in maniera precisa, è uno scrittore, di “personal branding”, spiegando col dono della sintesi di come gli sia stato chiesto di farsi portavoce degli omosessuali, di chi arriva dalle periferie, di chi è sieropositivo, tutti focus del suo libro. Di lavorare sul suo brand, quindi, laddove lui voleva solo scrivere, fare il suo mestiere. Racconta anche di come il suo secondo libro, Corpi minori, sia andato decisamente meno bene del primo, e di come questo lo abbia proiettato verso un abisso. Meno successo che col precedente, fatto di per sé non solo prevedibile, ma strutturale, di sistema, la richiesta, però, di concentrarsi ulteriormente sul proprio personal brand, al fine di non perdere quanto messo in piedi con l’esordio, il tentativo quindi di capitalizzare quel “tesoretto”, parole mie. Parole mie perché, confesso, non trovo più quel post, di cui Jonathan Bazzi era protagonista, non artefice. Comunque questo il senso, o quantomeno l’aspetto che mi interessa, come terzo punto di questo excursus sullo stato dell’arte, il “personal branding” cui chi è a suo modo un nome, un autore, un artista, è chiamato a dar seguito, a prescindere dalla propria arte, e al solo scopo di esserci, di esserci ancora, di sopravvivere. Qualcosa di fondamentale, oggi, in fondo anche a Sangiovanni e Mr Rain, ma anche a tutti gli altri che si sono messi a nudo a riguardo, da Fragola a Lighea, tanto per tirare un filo nel tempo che copre oltre trent’anni di storia del pop, è stato chiesto e viene chiesto di lavorare sul loro “personal brand”, essendo sempre presenti, sempre sul pezzo, sui social, con le canzoni, come coi libri, gli articoli, quel che è. Il tutto a beneficio di un mercato, quello dei libri, nel caso di Bazzi, quindi culturale, quello delle canzoni, nel caso di Sangiovanni e Mr Rain, quindi di intrattenimento e spettacolo, che col tempo è diventato sempre più irrilevante, i libri non si comprano, al limite si rubano, le canzoni non si comprano, si streammano, gratis e senza grandi introiti per chi le canta e le produce. Un mercato, due mercati, anzi, che si reggono prevalentemente proprio sul parlarne, fare movimento, generare traffico, più che sul mercato vero e proprio, le presentazioni, i festival, le conferenze, i TedX, i concerti, i live, i firmacopie, tutto fuorché quel che i mercati in questione dovrebbero avere come principale attenzione, e si parla di mercati, badate bene, non certo d’arte, rispettivamente i libri e le canzoni. Il recente caso del libro del generale Vannacci, a giorni di nuovo in libreria con una seconda, chiamiamola così, opera, è in questo emblematica. Un libro autoprodotto che è divenuto un caso editoriale proprio per una faccenda di personal branding, per altro agevolata da chi in apparenza voleva attaccare quel brand, sgonfiatasi, editorialmente, proprio nel momento in cui il tomo è finito in libreria, il più delle copie le ha vendute nella versione self publishing su Amazon, e ora che si replica di nuovo tutti a parlare del generale per la sua ipotetica candidatura alle Europee, per la sua sospensione dal servizio, daje di personal brandig, insomma. A furia di inseguire chi quel “personal brand” già ce l’aveva, gli influencer, i personaggi noti, questi mercati si sono svuotati, lasciando che l’overdrive di produzioni prendesse il posto delle produzioni di qualità, il momentaneo si sostituisse a un’idea neanche troppo alta di “fare catalogo”. Ben vengano, allora, quanti vanno rubando nelle librerie, qualcuno che almeno si prenda la briga di leggerli i libri. O, poi vallo a sapere, magari il Lutring di piazza Gae Aulenti aveva preso proprio Che stupida di Ilary Blasi e altri titoli del genere, o tempora o mores.