Premetto, stimo parecchio la scrittrice Simona Vinci, la leggo da sempre e il suo Parla, mia paura ha suscitato sentimenti di vicinanza (essendo anche io preda, spesso, di depressione e – adesso meno – di attacchi di panico – le regalo questa citazione da Manlio Sgalambro: “Dove sei, dolore? Con te se ne va anche la mia gioventù”). Ma se si scaglia, anche autoironicamente, contro il cannolo siciliano, allora devo per forza dirgliene quattro. Scrive la Vinci su Facebook: “Facezie. Ho un'amica del cuore che assocerò per sempre ai cannoli siciliani, vent'anni fa insegnava all'Accademia di Belle Arti di Palermo, spesso tornava a Bologna di sera tardi, in aereo, arrivava a fine cena tra amici, si infuriava perché non trovava parcheggio - ai tempi eravamo sempre in metà di mille - ma si presentava recando seco vassoi carichi di cannoli freschi che avevano viaggiato dentro la cappelliera. Era un gesto d'amore. È un'amica così. Ancora adesso, ieri sera. Comunque ci sono tre possibili ricostruzioni storiche sull'origine dei cannoli, una dice che siano stati inventati dalle suore di un convento a Catalnissetta, un'altra dalle suore del Convento di Santa Maria di Monte Oliveto a Palermo per fare uno scherzo al sacerdote e un'altra che siano nati tra le mura di un harem, sempre a Catalnissetta, ma in un tempo precedente, sotto la dominazione araba. Quindi, in ogni caso creato da femmine: non ci trovate una sottile forma di divertito sfottò? La parte per il tutto: e magnamoselo 'sto patriarcato, irridiamolo, divoriamolo e ridiamoci su. (L'avevo anticipato che era una facezia)”.
In primis, il cannolo siciliano non è una “facezia” e, sì, è l'evidente metafora di simbolo fallico ripieno di seme maschile. Sarà mia cura farle recapitare un vassoio di “minnuzze di Sant'Agata”, piccole cassatelle a forma di seno a ricordo del martirio di Sant'Agata, patrona di Catania che, prima di essere arrostita sulla graticola, fu mutilata dei seni dal proconsole Quinziano che se ne invaghì, non ricambiato (non solo voleva l'abiura del cristianesimo da parte della giovanissima Agata, ma voleva anche approfittare delle sue grazie). Questo per dire che, in Sicilia, abbiamo sì dolci metaforicamente maschili, ma ne abbiamo anche di esplicitamente femminili (la “minnuzza”, il piccolo seno, è una piccola cassata tonda con una ciliegina candita in cima a mimare un capezzolo, e così come le donne addentano il cannolo, gli uomini mozzicano la minnuzza – in Sicilia siamo più woke e paritari di quanto si pensi). È un po' la chiusa del post di Simona Vinci che mi ha causato un certo fastidio culinario: “Non ci trovate una sottile forma di divertito sfottò? La parte per il tutto: e magnamoselo 'sto patriarcato, irridiamolo, divoriamolo e ridiamoci su”. Ora, a parte la sineddotica citazione colta (non potresti magnatte 'sta min*hia di cannolo senza sovrastrutture?), noi siciliano faremmo anche a meno di questa altezzosa autoironia. Anzi, consigliamo a tutte coloro che la pensano come Simona Vinci (ma sono certo che cambierà idea, è una persona intelligente) di rinunciare a tutti i cibi che ricordano loro, in qualche maniera, il patriarcato: niente salsiccia, niente salame, niente tubo di jambonet (non è un cibo raffinato, ma nelle zone rurali-contadine, quelle che una volta erano la base del Pci, prima che la sinistra diventasse una destra snob, è molto apprezzato per il panino della pausa pranzo) che a dimensioni di tubo nessuna si è mai lamentata. E ancora niente “stummo”, che in Sicilia è sia il nome dello sgombro che dell'organo sessuale maschile (“lo stummo con un occhio” per essere precisi). Niente volgarissimi “rigatoni”, che oltre alla forma fallica richiamano alla mente una pratica che rimanda alle bellissime bocche dotate di incisivi sporgenti – che, personalmente, amo. Rollè di nessun genere. Ovviamente: addio pescespada. Per non parlare di: olive, olivette ascolane, olivette di pistacchio (altro dolce tipico di Sant'Agata, usuale dono reciproco delle coppie che si augurano fertilità e prole). Mai più polpette, di carne o vegane. Via il profiterole. Ma eliminerei anche banane, zucchine, cetrioli, per non parlare della frutta tonda, troppo sineddocamente testicolare: mele, arance, pesche... al limite vi potete mangiare qualche pera. Per il resto, graziateci, e limitatevi a mangiare cibi matriarcali: escargot (lumache), ostriche e cozze. Nelle giornate in cui la primavera esalta il vostro sentirvi donne, un bel budino o della marmellata al cucchiaio. Visto che bisogna sfottersi anche sul cibo, a ognuno il suo.