Gino Cecchettin è tornato da Fabio Fazio, Gino Cecchettin ha scritto un libro, Gino Cecchettin promuoverà il suo libro, probabilmente ci guadagnerà, Gino Cecchettin è stato lisciato da Fabio Fazio. Gino Cecchettin non ha sbagliato niente. Togliamo di mezzo le cause di forza maggiore. La lisciatura di pelo da parte del conduttore è – oltre che dovuta in questo caso – tipica del programma; c’è stata con gente peggiore di lui, non vedo perché non debba esserci per una persona che ha perso quasi tutto, approssimativamente il sessantasette per cento della sua intera vita: prima una madre e poi una figlia. Cosa resta degli elementi considerati biasimevoli di questa storia? Tutto ciò che biasimevole non è, che non è orrido, che non è pericoloso, che non è dannoso per la società. Non c’è nulla di incivile, di sbagliato, di scorretto. Gino Cecchettin ha un dolore reale, una coscienza politica più o meno indotta dalla figlia, scoperta per la prima volta, e un mezzo pacifico per elaborarlo, decostruirlo, condividerlo, comunicarlo e persino metabolizzarlo (magari facendoci qualche soldo). Tutto quello che c’è è una buona, volontaria, non violenta, libera scelta economica. Qualcuno direbbe, a ragione, di “azione umana” (vedi Mises, Rothbard, Hoppe, Block). Vuole esprimere idee politiche, alcune delle quali irrimediabilmente lontane dalle vostre? Lo fa senza imporle a nessuno, senza usare l’aggressione. La sua mano, cioè, finisce ben prima del tuo mento. Ha scelto il libero mercato, più o meno consapevolmente (saranno una famiglia socialista, di destra o di sinistra poco importa).
Poi nell’intervista il gioco è sempre una gara di illogicità, una guerra alla logica. Con Fazio che tenta di giustificare le parole della figlia di Gino, Elena, Turetta non è un mostro ma il modello di uomo. Gino annulla completamente qualsiasi argomento: lo definisce “normalità”. È il solito discorso del patriarcato e dei suoi figli sani. Cecchettin padre, per fortuna, ha ancora qualche residuo di paternalismo familiare (l’unico buono), per cui ricade in una massima che molte femministe non approverebbero: parlate con i genitori, i genitori non siano amici. Comunque niente di nuovo rispetto all’intervista di dicembre. La novità è Cara Giulia, in libreria dal 5 marzo. La novità, cioè, è l’atto perfettamente civile di fare ciò che si vuole del proprio dolore e delle proprie battaglie, scegliendo tra ciò che il mercato ha da offrire, senza estraniarsi dalla vita civile. Senza, pare – almeno per ora? – candidarsi in politica per esempio. Ci sono almeno dieci cose peggiori di questa che avrebbe potuto fare. Probabilmente la figlia, insieme a qualche militante fuori dalle università, le farà. Lui sta creando intorno a una perdita qualcosa di positivo, di costruttivo, pur non potendo restituire mai ciò che ha perso. Sta generando valore. Purtroppo, vittime come siamo di una distorsione intellettuale profondissima, alimentata nelle scuole e inculcata fin da giovani, non riusciamo a leggere in modo razionale e morale tutto ciò che ha a che fare con scelte economiche libere e volontarie. Per noi sono questioni senza anima, astratte, da robot, numeri nelle sale dove degli assatanati guardano tutto il giorno l’andamento della borsa, tirando di coca eccettera eccetera (sì, sto pensando a The wolf of Wall Street).
Ma le cose non stanno così. Da Adam Smith (e David Hume) a oggi, il mercato non solo ha a che fare con la morale, con gli esseri umani, ma ha a che fare con la giustizia. Il mercato è giusto, è buono, è sano, è l’alternativa alla dittatura e al totalitarismo. La nostra vita è costantemente soggetta agli influssi benefici del libero mercato. L’adolescente che vuole capire il suo dolore comprerà un libro, una bella edizione di Goethe o una vecchia copia usata di Baudelaire. Alla nostra ragazza (o al nostro ragazzo) regaliamo fiori, cuciniamo buon cibo, regaliamo vacanze un tempo accessibili a pochissimi. Ci curiamo in casa facilmente, non con acqua olio e strane formule magiche, ma con una pasticca di paracetamolo. Se stiamo male, se siamo depressi, se soffriamo, pagheremo una parcella allo psicologo, che avrà comprato libri importanti e complessi al posto vostro. Nonostante questo ci siamo abituati a giudicare i casi singoli come deprecabili, senza accorgerci dell’ignobile mistificazione che anche in questo caso mettiamo in atto. Giudichiamo Gino Cecchettin perché non capiamo il suo modo di vivere il dolore, che non è il nostro (e non c’è nulla di strano nel credere che il proprio sia il modo giusto di viverlo), e in più – si dice – monetizza su una tragedia. A parte che la tragedia è sua e ci fa quel che vuole, perché un padre non deve chiedere il permesso agli ascoltatori di Fazio o ai social; ma poi cosa c’è di male nel guadagnare, nel creare qualcosa che prima non c’era? Forse questa è una bella metafora del socialismo. Lì, dove vede perdita, il socialismo ne pretenderebbe altra. Mentre noi accettiamo, silenziosi, il complotto contro la libertà di agire.