Gino Cecchettin, il padre della giovane Giulia barbaramente trucidata dall’ex fidanzato Filippo Turetta, ha deciso di affidarsi a una notissima agenzia di comunicazione londinese dei vip Andrew Nurnberg, qualcuno ha anche parlato di un libro o una fiction sulla tragica vicenda in arrivo. L’agente Barbara Barbieri ha già risposto ai giornalisti che volevano contattarla: “Il signor Cecchettin ha bisogno di riposare”. Molti giornali hanno polemizzato su questa scelta. Alcuni hanno addirittura scritto che ci sarebbe una sorta di sfruttamento dell’immagine di Giulia a fini propri e/o di lavoro. Noi non siamo di questo avviso. Proprio la vicenda Cecchettin è divenuta infatti emblematica per far capire invece quanto sia determinante e importante la comunicazione in generale e in questo caso particolare. Le dichiarazioni del padre Gino e della sorella Elena hanno provocato infatti serrate polemiche proprio perché estemporanee e magari dettate unicamente da un comprensibile stato emotivo alterato dal gravissimo fatto accaduto. E questa umanità non gliela nega nessuno. Detto questo, però, sarebbe il tempo di rispondere a una domanda chiave che non è stata mai rivolta direttamente all’interessato e cioè se il profilo X di cui si è parlato per qualche tempo sia il suo oppure no. Una domanda semplice, assolutamente banale, che dovrebbe essere l’abc del giornalismo e che pure, incredibilmente, non è stata mai fatta direttamente neppure quando Gino Cecchettin è stato intervistato da Fabio Fazio, proprio il giorno dopo che la polemica divampasse furiosamente. Infatti dal profilo incriminato – prontamente tolto – e che conteneva la sua foto (la stessa di Linkedin) erano presenti un bel numero di messaggi da caserma a sfondo sessuale che per decenza non riportiamo. Messaggi che offendono profondamente la donna, il suo ruolo sociale e la colpiscono nella sua intimità sessuale.
Un comportamento esecrabile, già condannabile di per sé, che però acquisisce una particolare valenza dopo che sia il padre che la sorella Elena hanno pronunciato discorsi di altissimo valore etico e sono assorti entrambi a icone intoccabili di una rivoluzione culturale “contro il patriarcato”. Questo però non deve fermare il giornalista dal suo mestiere basilare: accertare la veridicità dei fatti riportati. E invece nessuno ha avuto il coraggio di chiederne apertamente conto, per la paura delle conseguenze, in una sorta di atmosfera di censura e autocensura imposta da un certo clima culturale che stiamo sperimentando. Un clima francamente brutto per la libertà di stampa e per chi ama la democrazia. Nessuno dei tanto solerti fact-checker, per esempio, ha voluto spendere questa volta una parola a riguardo, mentre molti hanno accusato sui social Gino di essere l’autore di tali nefandezze, anche riportando considerazioni strettamente tecniche. Poiché la verità in questo caso è assai semplice da appurare, perché Cecchettin non ha mai sentito la necessità, ad esempio da Fazio, di dire semplicemente: “No, il profilo non è mio”, preferendo invece tacere, complice l’intervistatore terrorizzato dall’idea che qualcuno quella domanda la potesse formulare? Ora che un’esperta di comunicazione, immaginiamo meno emotivamente coinvolta, parlerà con la stampa per suo conto, la domanda la poniamo noi: “Il profilo chiuso era di Gino Cecchettin?”. Se Cecchettin ancora riposa ci risponda la Barbieri ma qualcuno, per favore, lo faccia. Conviene anche e soprattutto a loro. Se la risposta sarà “no” saremo ulteriormente contenti che si tratti di un deplorevole equivoco. Se invece sarà “sì” la cosa sarà in effetti disdicevole e in totale contrasto con quanto affermato dopo il delitto. Ma potrebbe sempre aggiungere come Terenzio: “Homo sum, humani nihil a me alienum puto” (“sono un uomo, niente di ciò che è umano mi è estraneo) e (forse) lo capiremmo. In ogni caso, etico è che un giornalista ponga la domanda e che l’interessato risponda proprio per il bene della trasparenza e in fondo anche per la povera vittima. Rimanere nel dubbio è invece la cosa peggiore che può fare Gino e la sua nuova addetta stampa. Non rispondere potrebbe essere interpretato facilmente come un’ammissione di colpevolezza e inficiare tutta l’attività futura.