“Elena, l’altra mia figlia, ha dato un messaggio – io l’ho sempre definita scherzosamente in famiglia ‘l’essere superiore’ – e ha centrato veramente il punto. Quando l’ho sentita parlare di Patriarcato, conoscevo la parola ma non il significato nella società moderna. E io supporterò Elena in tutte le sue battaglie, perché è una battaglia che dobbiamo fare tutti”. Durante l’intervista a Che tempo che fa, Gino Cecchettin ha parlato di cambiamento. Non ha parlato solo della perdita, di una figlia morta, ma di qualcosa che lo ha portato a guardarsi dentro. Le parole dell’altra figlia lo hanno interdetto, cioè bloccato. Un uomo probabilmente imbambolato dal dolore è stato scosso dal discorso di sua figlia. Questo è il punto. Dovevamo aspettare che ce lo dicesse da Fazio? Ovviamente no. Si poteva immaginare, fin dalle prime ore di polemica per dei suoi vecchi post, che evidentemente esistono al mondo eventi che possono trasformarti. Per esempio la morte di una madre e di una figlia. Incredibile, eh? Gino Cecchettin è finito sotto accusa di fronte al tribunale di chi, esauritosi l’entusiasmo per il femminicidio in generale (e Turetta in particolare), ora se la prende con l’uomo più prossimo a Giulia oltre all’assassino, il papà. Non solo mancando di intelligenza critica (anche i padri possono cambiare idea), non pensando neanche per un momento che condannare un uomo per frasi vecchie non abbia senso, alla luce di quanto la sua vita sia cambiata nel frattempo, ma mancando proprio il punto generale: difendere le donne dagli uomini che le uccidono, non dagli uomini (come Gino) che le amano. Le amano al punto da parlare di santità solo riferendosi alla moglie sul letto dell’ospedale, poco prima di morire: “Negli ultimi giorni di malattia di mia moglie in ospedale, lei era molto affranta e si è addirittura scusata come me e mi ha detto: ‘Scusami, quando ci siamo messi assieme non sapevo che mi sarei ammalata, scusami per tutto questo’. È stata la cosa più vicina alla ‘santità’ e non si può rimanere la stessa persona (sentendosi dire questo). Anche nei confronti dei miei figli è cambiato l’atteggiamento, ho iniziato a dirgli ti voglio bene e ti amo molto più spesso, a Elena, Giulia e Davide, e ho visto che il rapporto nei loro confronti è cambiato”. Ti amo, due parole pericolosissime. Perché anche su questo si è fatto polemica. Dicono: “L’amore si dimostra con i fatti non con le parole. Chiunque può dire ti amo, soprattutto chi vuole ingannare e fare del male. Questo sarebbe l’impegno civico? Continuando a dire queste fesserie…”. Ci si riferisce al consiglio di Gino Cecchettin: “Vorrei dire una cosa ai maschi. In questo momento vorrei invitarvi a dire ti amo alle compagne e alle mogli. Non ti voglio bene, ma ti amo. Ditelo spesso, dovete dirlo ogni volta. Fatelo in questo momento”. Il problema sarebbe amare? Amare con le parole? Dire ti amo (che è espressione più forte del semplice “ti voglio bene”) è manipolazione? Molti, che non hanno vissuto niente di simile a quello che sta vivendo Gino Cecchettin, è come se stessero dicendo che no, non ha ancora davvero capito. È cambiato, sì. Ma per diventare cosa? Una versione annacquata di quello che era prima, ancora “troppo maschio”?
Quel prima, esemplificato secondo alcuni da qualche post. Tweet che non è chiaro se siano, almeno in parte, anche dei fake (e, grazie all’intervista di domenica sera, non sappiamo dirlo, dal momento che Fabio Fazio pare abbia accuratamente evitato di chiederlo). Il 7 novembre 2018 avrebbe scritto: “Calze con le righe e scarpe coi tacchi fanno ses*o anche se indossate da Pina Fantozzi”. Il 10 ottobre 2019 pare abbia risposto a un tweet che diceva: “Comunque, le donne con tette piccole, hanno bisogno di un uomo che presta attenzione ai dettagli”. Gino Cecchettin avrebbe replicato: “Se compensano col culo, anche no!” (11 ottobre 2019, 12:33 am). Il 21 ottobre 2021 avrebbe scritto (rispondendo alla domanda “Uscireste con voi stessi?”): Certo che sì, sono alto, bello, divertente, erudito e soprattutto sco*o da dio. Ah, dimenticavo, sono anche umile”. Per alcuni sarebbero esempi di quella cultura patriarcale e dello stupro che ora si trova a combattere. Per loro non va bene che abbia smesso di scrivere cose del genere, ormai lo ha fatto. Vorrebbero essere più progressisti dei cristiani, ma finiscono per non saper perdonare, per condannare e basta. Sono più vecchi dei cristiani e della democrazia, in fondo. Ma lo sono nel modo che piace ai più. Gino, che piaceva ai più fino a qualche giorno fa, ora è un nuovo bersaglio, un capro espiatorio per continuare a farsi piacere. Ma lui è cambiato, lo dice in tv, in un programma da milioni di telespettatori. Non ha paura di usare l’umiltà di un uomo che ha perso due delle tre donne più importanti della sua vita. Varrebbe la pena di ricordare che quel genere di contenuti non c’entrano nulla con “il maschio”. Essere maschi non significa essere volgari. La volgarità la puoi perdere con gli anni, come la virilità puoi acquistarla con l’esperienza. Non sono dati eterni. Condannare un uomo per dei presunti vecchi messaggi è come condannarlo per essere cresciuto, per essere stato adolescente. Senza contare, poi, che non sono crimini. Gino Cecchettin non ha ucciso nessuno, non ha ucciso sua figlia. Ritorcergli contro l’arma e gli slogan che ora sta provando a sostenere con tutte le sue forze non vi sembra troppo? In fondo ripete quello che fino a ieri è stato ripetuto da tutte le femministe che abbiano trattato questo caso: “Dovremmo iniziare dal nostro credo più profondo, quelle che sono le nostre convinzioni, dalle espressioni che usiamo tutti i giorni. L’altro giorno stavo parlando con un amico e mi è uscita l’espressione ‘facciamo un discorso da uomo a uomo’. Tac, mi sono bloccato subito, quella è un’espressione del patriarcato. Perché una discussione da uomo a uomo? Perché poi siamo genitori, educhiamo inconsciamente in una maniera tale da far sì che la società non cambia, che il padre sia ancora padrone, chiaramente con tutte le sfaccettature che ci possono essere nelle varie famiglie, ma dovremmo dare un altro tipo di messaggio”. Cosa volete da lui? Che non sia stato l’uomo che è stato? Non si può fare, non possiamo cancellare nulla. E Gino Cecchettin avrebbe più motivi di altri per voler cancellare parte del passato. Non c’è bisogno che a ricordarglielo ci siano anonimi (perché il nome e una foto non basta, dietro a uno schermo, a chilometri di distanza, senza averci scambiato due parole, restiamo tutti anonimi) impegnati a scavare dove non troveranno nessun crimine, nessun delitto, nulla che possa essere giudicato da una società civile. A meno di non voler criticare la volgarità di certe espressioni. Volgarità che fanno schifo, ma non sono ancora fuori legge.
L’intervista da Fazio non aiuterà chi è partito con l’attacco alla cieca contro un uomo che ha perso sua figlia. Se la morte di Giulia non li ha fermati, non lo faranno quelle due semplici parole, “sono cambiato”, che per colpa del fango di questi giorni suonano come una giustificazione, quando Gino non avrebbe nulla da giustificare a una platea che battibecca. Ma a chi ha già superato tutto questo, tutto ciò che è irrilevante, può far comodo ricordare un’altra parte del suo intervento, lontana dalla retorica: “Bisogno agire su tanti punti, io ho provato a elencarli, ma inviterei a esempio a usare molto più i canali comunicativi: ai genitori a parlare con i figli cercando di non essere amici, di essere l’educatore, anche severo, ma che cerca di capire quali sono le reali esigenze. Magari anche invadendo un po’ la privacy, non tantissimo. Io ho dato troppo respiro, conoscendo Giulia, una persona molto giudiziosa. Ho lasciato sempre fare e non volevo entrare nella sfera. Ma un minimo aumento della connettività per stare con i figli e gli amici probabilmente permetterebbe di raccogliere di più le informazioni e di avere di più il quadro generale”. Essere padri e non amici.