Un caso mai risolto, un omicidio senza colpevole. Due decenni di indagini, tre gradi di giudizio nei quali l’appello - poi confermato dalla Cassazione - aveva sconfessato la condanna in primo grado del principale imputato, e poi ancora il suicidio di uno dei primi sospettati, l’errore giudiziario e, ora, la notizia della riapertura delle indagini, a quasi trentedue anni dall’assassinio: è la storia del delitto di via Poma, quello di Simonetta Cesaroni, segretaria di uno studio commerciale uccisa nell’ufficio di un cliente per il quale la sua azeinda prestava servizio. Roma, via Carlo Poma, quartiere Prati: era il 7 agosto del 1990, nel pieno dell’estate con la città semideserta. Lei non aveva ancora ventun anni.
Ventinove pugnalate per un omicidio orribile, eppure non è stata mai trovata l’arma del delitto (un tagliacarte, secondo le ipotesi) né per quell’assassinio si è mai giunti alla definizione di un colpevole. Un caso tuttora irrisolto, ed è per questo che la notizia sulla riapertura di un fascicolo da parte della Procura di Roma, nei giorni scorsi, ha riportato in auge una storia che ha riempito le pagine dei quotidiani e dei rotocalchi gialli del tempo ed è entrata nell’immaginario collettivo, oltre che per l’efferatezza del crimine, anche perché non si contano le ore dedicate al delitto e alle indagini dalle trasmissioni televisive che all’epoca, molto più di oggi, entravano nelle case delle persone e finivano per indirizzarne le idee a riguardo attraverso il coinvolgimento emotivo. Ecco perché il caso e i nomi ad esso collegati tornano nella memoria di chi oggi ha dai trentacinque anni in su, e allora scoprire che la Procura avrebbe già interrogato diversi testimoni e starebbe indagando su un sospettato che, nel 1990, avrebbe fornito un alibi falso, riapre anche il giallo dal punto di vista mediatico.
In casi come questo sono diverse le segnalazioni che arrivano agli inquirenti: in gran parte si rivelano infondate, in altri suggeriscono, come pare stavolta, nuove indagini, ma furono proprio la lunghezza e la complessità delle indagini dell’epoca a restare scolpite nella mente assieme, appunto, ai nomi di chi da esse è entrato e uscito. Nomi come quello di Pietrino Vanacore, il portiere dello stabile che fu il primo arrestato della vicenda - passò in carcere quasi un mese - per poi essere scagionato dalle accuse, o come quello di Raniero Busco, il fidanzato della ragazza, condannato a 24 anni di reclusione in primo grado ma poi assolto in appello, sentenza quest’ultima confermata dalla Cassazione nel 2014, al termine di un’odissea giudiziaria che lo aveva visto precipitare in un vorticoso incubo, al punto che i giudici di piazza Cavour definirono le prove a suo carico delle sostanziali “congetture”.
Busco dal giorno dell’assoluzione tenta di dimenticare la vicenda e di farsi dimenticare, Vanacore invece si è suicidato nel 2010, annegando in mare nel Tarantino alla vigilia di una deposizione in aula; nel mezzo piste fantasiose e fasulle, presunte complicità dei servizi segreti o della Banda della Magliana, tutto il corredo possibile e immaginabile cioè per un delitto impunito.
Un nuovo fascicolo, ha affermato Paolo Loria, difensore di Busco, che potrebbe aiutare a risolvere il caso, «a trovare il vero colpevole e liberare dal sospetto, che dura da trent’anni, una serie di personaggi assolutamente innocenti». Che, tuttavia, fanno parte di una vicenda che scosse un’Italia all’epoca ancora gaudente, appena uscita dall’ebbrezza dei Mondiali di calcio e risvegliata nei suoi timori, in un mercoledì d’agosto, dalle prime notizie sull’omicidio di una giovane ragazza brutalmente ammazzata la sera prima.