Didattico, diretto, simpatico. Estremamente coinvolgente. Non stiamo parlando di uno strano incrocio fra Alberto Angela e Fiorello, bensì di DJ Cerla, disc-jockey e produttore che da qualche tempo sta sfruttando in modo particolarmente intelligente i suoi spazi social. Quarantaduemila follower su Instagram per un canale, il suo, che sputa fuori storie fantastiche in cui il clubbing e la musica dance anni ’90 si fanno memoria vivissima. Pillole in cui Gabriele Cerlini presenta una vecchia hit dimenticata, una perla trascurata o un gioiello che ha fatto scuola. In cui, con modi accattivanti, quasi rassicuranti, offre alla platea episodi di vita vissuta – sempre attorno a una pista da ballo – che ci parlano di un’epoca, di un modo di intendere la musica, la notte, le relazioni.
Dove ti trovavi tra il 1990 e il 1995, il periodo che più ami raccontare attraverso i social?
Ho iniziato a suonare come dj a fine anni ottanta, alle feste private. Nel 1989 ho esordito in discoteca. Parlo di una “residenza” per l’intero weekend, cosa rara per un ragazzo così giovane. Ho lavorato prima al Marabù di Reggio Emilia, la mia città natale. Poi, sempre a Reggio, all’Adrenaline, dove sono esploso. Poi ho proseguito in tanti altri locali. Ero ispiratissimo da Daniele Davoli, un dj/produttore che metteva i dischi dalle mie parti. Nel 1989 fece un successo enorme in tutta Europa con la clamorosa “Ride on time” (con questo pezzo del progetto Black Box raggiunse il numero uno della classifica inglese, dove restò per sei settimane. Fu il brano più venduto di quell’anno in Inghilterra, nda). Era lui il mio punto di riferimento. In discoteca usava i campionatori e costruiva la musica con una tastiera. Così di nascosto, senza dirlo ai miei, comprai anch’io un campionatore con cui fare i loop, pagandolo 200mila lire al mese, a rate. Il primo disco lo pubblicai sulla sua etichetta. Il pezzo – siamo ormai nel 1993 – fu trasmesso dal Deejay Time di Radio Deejay. Subito dopo sono partito per il mio primo tour lontano dall’Italia, destinazione Spagna.
Essere trasmessi al Deejay Time, all’epoca, era un lasciapassare per irrompere nelle discoteche commerciali entrando dall’ingresso principale.
E considera che Albertino, ai tempi, era molto esterofilo. Voleva solo tracce americane, tedesche, olandesi. Quando si è trovato una white label con su scritto “Rotterdam” e “DJ Cerla”, ha programmato il pezzo pensando che fosse olandese. In discoteca funzionava molto bene perché l’avevo già testato varie volte, notte dopo notte.
Da Reggio con furore. Appena pubblicato “Rotterdam”, la Riviera immagino sarà stata tua…
In realtà non quanto sarebbe lecito credere. Ho sempre lavorato più all’estero che in Italia. Fino all’inizio degli anni 2000 ho tenuto un piede fisso anche a Reggio, ma gran parte delle mie serate le facevo all’estero.
Con i tuoi video evochi un’epoca in cui “la musica da discoteca” rappresentava cose diverse per persone diverse. C’erano la cosiddetta commerciale, l’underground, la techno… Tu dove ti collocavi?
Ho proprio iniziato a pubblicare video perché avevo la sensazione che tutti gli anni ’90 fossero ridotti a quella decina di brani che tutti conoscono e che ancora adesso vengono remixati ogni sei mesi. Avevo l’impressione che tutta la ricchezza a cui tu accenni fosse come svaporata. Mi sono presto reso conto che i miei video risvegliano i ricordi di migliaia di persone, segno che una certa eredità musicale potrà anche rischiare di uscire dalle grandi narrazioni della nostra più recente storia, ma non dai ricordi di tutte quelle persone che hanno vissuto, più o meno intensamente, il periodo. Per tornare al punto: io ho sempre oscillato fra la techno e la commerciale, suonando un po’ di tutto, compresa quella che, qui a Reggio, definiamo “musica da baracca”. Però ho fatto anche serate hardcore, serate house, serate progressive… Con i miei video cerco sempre una sintesi, non cito mai pezzi né troppo spinti né troppo lenti. Credo che la playlist che ne è uscita (“Generation”, che è rintracciabile su varie piattaforme, a partire ovviamente da Spotify, nda) sia una buona rappresentazione della ricchezza e della varietà che provo a raccontare.
Ecco, come è nata l’idea di raccontare la discoteca e gli anni ’90?
Una volta un locale mi ha chiesto un video-invito per promuovere una mia serata. Io, accanto all’invito, decido di parlare anche della differenza fra le discoteche degli anni ‘90 e quelle di oggi. Lo pubblico su TikTok e diventa virale: 300mila visualizzazioni; 2mila follower in più in un colpo solo. Quindi lo pubblico anche su Instagram e Facebook. Dove mi becco anche qualche insulto perché parlo di brani che non tutti ricordano. Però intanto su Facebook faccio 400mila visualizzazioni, così inizio a lavorare su un format che non sia troppo tecnico, ma che ambisca a gettare un ponte fra la storia dei novanta e le emozioni che abbiamo provato in quel decennio. Infatti anche quando parlo di episodi avvenuti 30 anni fa non uso mai il passato, solo il presente. Per creare più coinvolgimento, come se le stessi vivendo in quell’esatto momento. Come quando mi è capitato di ricordare una mia serata a Valencia. Nei commenti al video la gente mi ha scritto: “Ho pianto”. Ma non tanto per dire, proprio perché ero andato a riesumare qualcosa di intimo e importante. La mia idea di fondo è quella di utilizzare la musica per ottenere lo stesso effetto che fanno a volte certi odori: sbloccare ricordi e permettere alle persone di rivivere le loro esperienze più vive ed emotivamente intense.
Mentre parli, alle tue spalle, si vedono sempre, a centinaia, i tuoi dischi. Ancora lì, reduci da mille battaglie.
Sì. Infatti non li ritengo parte di una vera e propria collezione. Per anni sono stati gli strumenti più preziosi del mestiere. Le copertine sono spesso usurate, strappate, i solchi dei vinili consumati. Su alcune copertine ci sono addirittura tracce di sangue, perché nel buio infilavo velocemente le dita nella busta del disco che avrei voluto suonare dopo, ma magari beccavo di striscio un cartone e mi tagliavo…
Qui siamo oltre il “sangue sulla pista” di cui cantava Michael Jackson! Passiamo quindi a un tipo di sofferenza o fastidio ben diverso: nonostante il successo, hai avvertito sulla pelle gli attriti che all’epoca, talvolta, separavano chi preferiva una notte commerciale da qualcosa di più estremo o artisticamente audace?
Certo, ma quando avverti questo attrito significa che la scena è complessivamente florida, che in giro c’è passione. Al momento potevo soffrire del fatto che se facevo progressive qualche ragazzino mi fischiava perché mi considerava “uno commerciale”, ma era tutto uno stimolo a tirare dritto e provare a fare meglio. È adesso che non frega più niente a nessuno. E infatti non c’è attrito fra chi frequenta la notte, fra chi sceglie una musica o un’altra.
Domanda nerd: qual era il tuo spacciatore di dodici pollici?
Mah, non sono mai stato uno che doveva avere la chicca a tutti i costi sganciando cifre folli a Disco Più (Rimini) o a Disco Inn (Modena). Anche se non mettevo l’ultima cosa uscita il giorno prima, andava bene lo stesso. Compravo a Reggio, da Mariposa, oppure in Spagna, dove trovavo dischi che qui non uscivano. Oppure nei magazzini milanesi; penso alla Dig It di Milano, in via Mecenate, dove trovavo cose forti.
Fast forward 2023. In che dimensione ti trovi ora?
A partire dalla fine degli anni ’90 è iniziato un ciclo decennale in cui praticamente in Italia non ci sono stato quasi mai. Ho portato il progetto “Floorfilla” in giro per l’Europa. Spagna, Austria, Germania, soprattutto. Al termine di quel periodo, sono tornato a Reggio, dove ho inventato una serata intitolata “Bombon3ra”, che resiste dal 2008. Sempre a Reggio faccio una serata intitolata “Tutta Reggio” in cui le piste si affollano di 40/50enni che non smettono mai, letteralmente, di ballare. Per loro solo musica uscita fra il 1989 e il 1999. Affinché anima e corpo si gettino in una capsula temporale unica, ben precisa. Al di fuori di quelle due serate, suono all’estero. Nelle ultime settimane, per dire, ho viaggiato fra Spagna, Francia e Austria. E tra poco andrò a Singapore, sempre col progetto “Floorfilla”, attivo anche a livello discografico.
Oggi di che salute gode la musica da discoteca?
Bob Sinclar, di recente, ha sentenziato, molto sinteticamente, che “la musica house è morta”. Non so dargli torto. Ascolto una musica che non dice più nulla, si continua a riciclare (cover, remix), manca un’evidente spinta all’innovazione. Ho da poco pubblicato una story su una hit attuale, “(It goes like) Nanana” di Peggy Gou. Bel pezzo, per carità, ma sembra provenire dritta dal 1996. Suona identica a qualcosa di quegli anni. Stessi arrangiamenti, stessi suoni, stesse batterie. Quando qualcosa non si evolve la natura ti dice che quella cosa morirà. Le produzioni ci sono, ma si va avanti per inerzia. I ragazzi ballano ancora la musica da discoteca, ma non la amano. La musica della Generazione Z è la trap, la house è quella della Generazione X, al massimo dei millenial.
Quindi quando fai la “Bombon3ra” cosa proponi?
La serata nacque con un taglio puramente anni ’90. Negli anni ha cambiato forma, perché ho inserito cose sempre diverse, mantenendo però intatto lo spirito che l’ha ispirata. Quindi, per dire, ho inserito le voci di un disco nuovo su una base anni ’90 e viceversa. Così, via via, si è andato a creare un suono, molto nostro, fatto soprattutto di mash-up e remix. Un suono sempre riconoscibile, allegro, cantabile. A metà serata ci prendiamo anche un po’ di tempo per proporre un inserto quasi demenziale in cui mettiamo di tutto, dalle sigle dei cartoni animati agli Abba. Vedi, feste simili sono un inno alla gioia, le serate trap sono tristi.
È difficile concepire la trap come qualcosa che può accendere una pista, eppure ha trovato terreno fertile anche in discoteca.
Sì, alcune discoteche mettono anche trap, ma i risultati spesso deludono gli organizzatori. Magari chiamano un artista, per quello che è un vero e proprio mini-concerto, ma finito lo show i ragazzi vanno tutti via senza consumare. Se invece c’è un dj che mette trap, mescolata a qualcos’altro, la serata risulta più tesa che gioiosa. I ragazzi non ballano, oscillano. L’atmosfera è plumbea, quasi imbronciata. La trap è musica adatta ad altro. Però ai ragazzi la somministrano ogni giorno e loro, a volte, se la fanno piacere anche per non sentirsi esclusi. Il mood della trap è sempre cupo, quasi mai energetico. Ma i ragazzi, storicamente, devono “buttare fuori”, non “tenere dentro”, altrimenti scoppiano. Ho generalizzato, ci sono ancora ragazzi che vivono il dancefloor, soprattutto nella mia zona, dove c’è ancora una gran voglia di divertirsi, ma un cambiamento c’è stato ed è stato profondo.
Mai come nell’estate 2023 trap ha fatto rima con Auto-Tune. Da che parte stai nella polemica Bersani-Sfera?
È stata una querelle basata su premesse sbagliate. Bersani ha mancato il bersaglio perché non è che Sfera cantasse male poiché l’Auto-Tune era spento. L’Auto-Tune era acceso, ma sulla scala sbagliata. La colpa quindi non era sua, ma del tecnico. Se anche avesse cantato in modo impeccabile per il tipo di canzone che stava eseguendo, avrebbe comunque sbagliato, perché l’Auto-Tune era settato in modo sbagliato. Nessuno può sapere davvero come ha cantato Sfera in quel momento. Siamo chiari: la trap piace o non piace e, a prescindere dall’Auto-Tune, a Bersani non può piacere. Altro discorso è dire che oggi per un cantante conta solo avere un bel timbro pop. Questo è vero, perché tutto il resto – timing e intonazione – si può aggiustare. L’Auto-Tune, ricordiamolo, crea un effetto gradevole solo se corregge l’input. Se uno cantasse in modo perfettamente intonato dovrebbe comunque cercare di essere leggermente calante o crescente per dare un senso all’utilizzo dell’Auto-Tune. Molti cantanti, oggi, hanno soprattutto un timbro che esce molto bene sulle casse. Fine.
La tua generazione, magari attraverso questo tipo di polemiche, si sta scoprendo eccessivamente censoria nei confronti dei giovani?
Non credo. Perché due vasi – figli e padri – che prima non comunicavano quasi mai, oggi comunicano attraverso i social. Nella fattispecie la trap sta esaurendo la pazienza delle generazioni più adulte perché ha oggettivamente rotto le palle (ride, nda), però allargando lo spettro credo che adulti e giovani oggi comunichino più di prima. E aggiungo: i social possono essere una benedizione, non pensiamo solo alla bile quotidianamente riversata su Facebook. Facebook è un social negativo, apri il feed e ti imbatti subito in qualche polemica. TikTok invece ha un algoritmo che funziona. E propone contenuti che viaggiano tra il divertente e l’istruttivo. Io su TikTok ho un feed adulto e la piattaforma mi restituisce solo contenuti interessanti da cui è difficile staccarsi. Ho quasi 10mila follower anche lì, però senza dovermi sorbire i complottismi di Facebook…TikTok non aumenta l’engagement facendo litigare la gente, ma attraverso proposte gradevoli.
All’estero le cose vanno meglio?
Molti locali hanno chiuso, ma ci sono tanti tanti festival. A Vigo, in Spagna, ho suonato a un festival con 12mila persone. A trenta chilometri ce n’era un altro, questa volta di reggaeton, con 50mila persone che hanno speso 120 euro di biglietto a testa per partecipare all’adunata. Da noi queste cose si vedono meno, anche se il mood post-pandemia è buono. Tante realtà sono ripartite bene.