Fiumara Grande è la vera foce del Tevere. Infatti, il “fiume sacro ai destini di Roma”, che nasce in Romagna sul monte Fumaiolo, non abbraccia il mar Tirreno a Fiumicino, come molti anche romani pensano ma bensì, un po’ più a sud, nel suo sbocco naturale, dopo Isola Sacra, vicino ad Ostia. Si tratta di un luogo surreale, alieno, che sembra porsi fuori dall’ambiente circostante. Non è cambiato dagli anni ’50 dello scorso secolo. Non lo è neanche da quella notte del 2 novembre 1975, quando il poeta, regista e scrittore Pierpaolo Pasolini fu ucciso brutalmente all’Idroscalo, a due passi dalla foce, sulla riva di Ostia. È un luogo selvaggio, diciamolo subito. Non è come il finto estuario di Fiumicino voluto dall’imperatore Traiano per disciplinare il corso del fiume. Qui sorgeva l’imponente “Portus”, collegato a Roma dalla via Portuense, il porto della Roma imperiale. Per arrivarci bisogna conoscere questi luoghi impervi, bisogna conoscere strade semidistrutte, e camminamenti di fango. Bisogna sapersi muovere in una campagna romana che sta per baciare la maestosità agitata del mar Tirreno. Bisogna avere buone conoscenze tra gli Elfi della campagna e le Ondine dei fiumi. Bisogna avere il loro permesso per entrare. Occorre essere temprati al sole e alla pioggia e poi resistere al forte vento che spesso soffia impetuoso dal mare verso la Terra, soprattutto d’inverno e schiaffeggia gli umani. Bisogna saper maneggiare le proprie paure e magari anche quelle degli altri che improvvisamente si vedono proiettati in un mondo angosciante, anche quando c’è la luce, anzi forse ancor di più in questo caso.
Perché se Fiumicino è l’apollineo, Fiumara Grande è il dionisiaco nietzschiano. Se Fiumicino è dopo tutto una cittadina sul mare, anche se molto diversa dalla vicina Ostia, Fiumara Grande è un territorio selvaggio di case definite abusive, di fango e sterpaglie che mette addosso uno strano sentimento, una specie di angoscia apocalittica che però non è del tutto amara ma possiede anche una sorte di sapore dolce che il peccato. Cioè c’è del piacere anche nel mistero, forse questo è quello che ci vogliono dire le ataviche sensazioni suscitate. Fiumara Grande non guida docilmente il fiume a mare. Il Tevere prende il sopravvento, si impossessa del suo mantello regale e regna incontrastato tra le bilance per la pesca che resistono stoicamente dagli anni ’50 dello scorso secolo. Man mano che ci si avvicina alla foce si percepisce che il “drago” è lì, alla fine della strada e che ogni tanto erutta acqua e non fuoco tra gli scogli impenetrabilmente sacri a chissà quale antico dio acquatico, antico despota di una razza più che millenaria. E poi bisogna lasciare l’auto e proseguire a piedi, non c’è altro modo. Proseguire tra lo stormire violento del vento mentre ci si palesa un paesaggio lunare, con una discarica che sta lì dall’inizio del Tempo, forse dall’epoca degli antichi romani. Una discarica ignorante che ha le sembianze di un pianeta ostile ma pur sempre affascinante.
Gli spruzzi d’acqua a volte arrivano addosso direttamente ai visitatori e lambiscono le case ammonticchiate una sull’altra. Occorre salire queste piccole montagne di roccia lunare per poi improvvisamente trovarsi davanti a Lui, il Fiume di Roma, il Tevere che per molti millenni è stato il simbolo stesso dell’Occidente. È un fiume violento ed irato questo; nulla a che fare con quello che scorre placido nel canale artificiale della vicina Fiumicino. È un fiume violento, guerriero che sfida il Sole, il Tramonto e le Stelle. Un fiume che attenta alla buona placidità dei borghesi che vogliono rubargli dei segreti. È questo un fiume che non tollera la frivolezza. Nel punto di confluenza tra il Tevere e il Mar Tirreno si scatena il finimondo. Ci sono gorghi velenosi che vorticano in tutte le direzioni, correnti impetuosissime che flagellano gli scogli, danze di anguille e altri mostri. Ed è una lotta tra il fiume che cerca di uscire e il mare che cerca di entrare. Una battaglia di Titani in cui non c’è nessun vero vincitore perché le due forze si contrastano tra loro. A volte vince il fiume che entra nel mare a volte vince il mare che penetra la terra. E in alto i gabbiani stridono e fanno giri meravigliosi per catturare al volo i pesci che guizzano argentati e storditi da tanta bellezza. Tra la potenza e l’atto cade l’ombra: una piccola indecisione e il gabbiano cattura il pesciolino. È la Natura, violenta e spietata eppure meravigliosa nella sua crudezza atavica. La stessa Natura che ruggisce immensa e imponente e disvela al di là della foce terre nuove e lontane, terre d’Africa e d’Occidente, terre di sogni e di meraviglie. Sullo sfondo l’incanto cromatico di un tramonto rosa d’inverno e rosso d’estate.