Una cosa è certa, era il 29 aprile del 1987 e cioè il giorno prima della mia laurea in fisica. Ero comprensibilmente ansioso e sentivo una certa solennità, per così dire, del momento che si poneva a chiusura di un lungo ciclo di impegno e studio. Rivedo distintamente la mia immagine, era la tarda mattinata, che scrive l’ultima formula di una complicata tesi sulle equazioni differenziali non lineari alle derivate parziali, per di più matriciali. Alla soddisfazione quasi agonistica di aver terminato l’ennesimo ripasso programmato seguì un dubbio: cosa fare nel pomeriggio che mi restava davanti? Avrei dovuto continuare lo studio o forse sarebbe stato meglio distrarmi con qualcosa d’altro? E se poi mi fossi stancato? Si susseguivano in me varie teorie pedagogiche e antropologiche, mentre mia madre consigliava senza dubbio il ripasso coatto con sveglia benedettina, magari supportata da immagini del misticismo cristiano che, come mi diceva lei, “quando possono, aiutano”. Ma questa ultima ipotesi mi pareva in contrasto con l’indirizzo razionale dei miei studi e così optai per una non meglio identificata “passeggiata” che doveva avere il compito di tranquillizzarmi sbarazzandomi, almeno per un po’ di tempo, degli epigoni di Newton. Dopo aver pranzato presi dunque la gloriosa auto di famiglia, una Opel Kadett bianca, e mi misi in viaggio senza una meta precisa, seguendo le nuvole. Abitando a Monteverde Nuovo, ben presto mi ritrovai però a guidare sulla Portuense, l’antica strada che collega ancor oggi la Capitale a Fiumicino. La giornata era primaverile, ma di quella primavera romana abbastanza infingarda di cui non ti puoi mai fidare, perché la sera viene su un insidioso ponentino freddo che penetra nelle ossa come una affilata lama di coltello, approfittando degli abiti già leggeri. La strada era libera e così in breve mi ritrovai in prossimità del mare. Girovagai un po’ nella zona e scoprii dapprima la vera foce del Tevere, non quella del canale artificiale di Fiumicino (allora non era ancora comune, ma faceva parte di Roma), che conoscono tutti e che è dovuta all’ingegno dell’imperatore Traiano, ma un’altra che si chiama Fiumara Grande. Quell’acqua limacciosa fu per me una sorta di apparizione e non nascondo che la sua feroce irruenza ancora oggi mi spaventa quando mi ritrovo a passare da quelle parti. Tutto intorno c’erano le reti a bilancia, sospese come immensi ragni nelle loro inquietanti stabilità e le baracche dei pescatori immerse in una discarica naturale che ne faceva (e ne fa ancora adesso) un paesaggio lunare, dai tratti sulfurei, la cui sabbia nera emette improvvisi baluginii metallici. Cumuli di rifiuti disegnavano, con geometrica arditezza, coni scapocchiati dal forte vento che incitava i marosi della foce, quasi volesse farli risalire a forza verso la città. Ripercorsi quindi a ritroso una stradina sterrata che ancora oggi esiste e tramite il passaggio di un ponte mi ritrovai nella zona dell’Idroscalo di Ostia, voluto dal fascismo, dove ci sono le rimesse delle imbarcazioni in attesa dell’estate per riprendere il mare. Risalendo dunque sull’altra sponda della foce mi si parò improvvisamente davanti una torre rossiccia, immersa in una vegetazione anarchica e selvaggia, dai tratti ostili e spigolosi. Scesi dall’auto per osservarla cautamente da una certa distanza, quasi fosse pericolosa. Si trattava –seppi poi- della Torre di San Michele, una delle numerose costruzioni di avvistamento utilizzata contro i pirati saraceni, edificata su base ottagonale, probabilmente su disegno di Michelangelo Buonarroti nella seconda metà del sedicesimo secolo per lo Stato Pontificio. Ricordo una certa inquietudine che mi colse ad osservare la costruzione che subito definii nella mia mente “torraccia” per il profilo minaccioso che si stagliava contro quel mare mosso e tumultuoso. Inoltre il cielo, nonostante la primavera inoltrata, era quel giorno nuvoloso, e un gioco di ombre e vento me la presentava in un aspetto sinistro. Risalii presto in auto e poco dopo mi apparve davanti qualcosa di assolutamente inaspettato dato il luogo: un piccolo monumento bianco. Mi fermai e scesi incuriosito.
Poi mi ricordai. Si trattava della scultura posta a memoria di Pier Paolo Pasolini, il grande poeta, scrittore e regista che era stato barbaramente ucciso proprio lì, in una fredda e ventosa notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975, quindi solo dodici anni prima. Una morte violenta, un delitto efferato che sembrò ritagliato da uno dei suoi libri. Dell’omicidio fu accusato e condannato un giovane dedito alla prostituzione, Pino Pelosi soprannominato “la rana”. Prima il poeta e il ragazzo si erano fermati a mangiare qualcosa Al biondo Tevere, un locale che ancora esiste poco dopo l’inizio della via Ostiense. Il Pelosi aveva preso degli spaghetti aglio e olio, sebbene l’ora fosse già tarda e il locale stesse chiudendo, mentre Pasolini aveva voluto solo una banana e una birra, avendo già cenato prima. Lasciarono il locale, secondo la testimonianza della signora Giuseppina, la proprietaria, verso mezzanotte e venti e si diressero verso Ostia. Solo due ore dopo il Pelosi sarebbe stato arrestato sul lungomare balneare, mentre guidava ad altissima velocità e contromano l’Alfa Romeo Giulia GT dell’artista. Una storia complicata, la cui verità definitiva non è mai venuta a galla. Pelosi cambiò più volte la sua versione dei fatti ammettendo che quella notte non era solo e che si era trattato di un agguato. Il corpo dello scrittore, che indossava pantaloni celesti ed una maglietta verde, fu trovato da una donna all’alba, riverso per terra. I possibili moventi negli anni si susseguirono: dall’incontro omosessuale finito male, che era quello iniziale del “ragazzo di vita”, alla matrice neofascista, ad una vendetta maturata nel mondo delle major energetiche per quanto rivelato nel romanzo incompiuto (pubblicato postumo) Petrolio. Il monumento, in marmo travertino, stilizza due colombe, simbolo di libertà, che si levano verso una luna piena, simbolo della poesia, il tutto sorretto da una colonna mozzata, rappresentazione di una vita spezzata precocemente. Improvvisamente tutta la fisica con la sua logica svanì per lasciare campo libero all’emozione. Già allora, nonostante i miei studi scientifici, scrivevo e questo mi aveva portato a conoscere Alberto Moravia, che allora faceva il critico cinematografico per l’Espresso e che aveva pubblicato da poco un libro, L’inverno nucleare, che mi chiese di leggere. Una volta volle che l’accompagnassi, ricordo che andava spesso al primo spettacolo pomeridiano, al vecchio cinema Induno a Trastevere, a vedere Quando soffia il vento, un suggestivo cartone animato giapponese sulle conseguenze di una guerra atomica e ne approfittò per chiedermi alcune cose di fisica nucleare. All’uscita mi parlò in maniera entusiastica di Pasolini e si commosse quando mi ripeté una frase che aveva pronunciato alla commemorazione dell’amico e che è divenuta famosa: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta, e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto dentro un secolo”. Ed era vero. Mi vennero in mente Ragazzi di vita, Una vita violenta e Le ceneri di Gramsci, avevo visto Accattone, Mamma Roma, Il Vangelo secondo Matteo, Edipo Re, Medea, Teorema, Il fiore delle Mille e una notte (la sceneggiatura la scrisse insieme a Dacia Maraini) ed ognuna di queste opere mi aveva colpito per una sorta di lirismo escatologico in cui prosa e poesia si scambiavano continuamente tra loro, un po’ come fanno lo Spazio e il Tempo in fisica. La parola si fa poesia e la poesia si fa parola e insieme creano dal nulla un miracolo di armonia e sensazioni. Ed ora, improvvisamente, mi trovavo davanti questo monumento abbozzato, rude, poroso, in un materiale grezzo e “ignorante”, a tratti volgare, che miracolosamente sorgeva da un terreno che era una discarica, come un fiore di loto in un mare di fango. In seguito lo scultore Mario Rosati lo rifece in un materiale più nobile, appunto il marmo travertino. L’area era veramente desolata e così scattai delle foto in bianco e nero, che ora sono una sorta di cimelio e considerate una rarità. Attualmente il monumento è stato inserito al centro di un parco letterario gestito dalla Lipu ed è meta di scuole, curiosi ed intellettuali. Mi soffermai ancora un po’ bighellonando nella piccola radura e spostando alternativamente lo sguardo verso gli opposti orizzonti, da una parte la città, dall’altra il mare.
Erano già passate alcune ore e incominciava a imbrunire, mentre il sole che quel giorno sembrava muoversi a scatti e non con la consueta continuità, scompariva velocemente nelle acque blu cobalto della sera. Il ponentino, puntuale come un orologio svizzero, cominciò a soffiare sempre più forte consigliandomi di risalire in auto e tornare a casa. Mi persi per un po’ nel dedalo campestre di stradine sterrate e pozzanghere fangose, come una falena impazzita intorno ad una luce e poi, miracolosamente come ero entrato, uscii e ritrovai la Portuense. Le ombre del tramonto si allungavano elasticamente davanti a me, mentre il traffico aumentava e i fari foravano l’aria frizzante della sera. Ingranavo il cambio sportivo dell’auto con un automatismo volutamente distratto, preso com’ero ancora dal ricordo di quella dolce e inaspettata epifania. Dopo qualche chilometro spuntarono in lontananza le malinconiche luci, di un giallo sporco, del massiccio serpentone di Corviale, uno dei quartieri “difficili” di Roma. Luci che raccontavano di degrado ed ingiustizia sociale, di cartacce, di disperazione, di ignoranza e mera sopravvivenza. I bar si susseguivano invece incavernati in palazzine dai muri scrostati e logori, incorniciati di manifesti strappati che raccontavano forse di un circo. E rivedevo Accattone camminare per una Portuense primigenia antica e solare, una domenica mattina, con un sorriso scanzonato, saltellando qua e là, chiedendo una sigaretta. Moravia parlava, riferendosi a Pasolini, di “realismo arcaico, gentile e misterioso”. Un intellettuale che cantava le crude e polverose borgate romane in cui i figli del popolo, i giovani dolci ed ingenui della sua epopea, proiettavano improvvisamente davanti a loro titaniche ombre elettriche di redenzione sociale. Il ricordo del poeta mi accompagnava ancora quando fiancheggiavo il Trullo per prendere via Affogalasino e pensai che quei posti, quei nomi così suggestivi, gli sarebbero piaciuti molto.