“L'ultima moda è la revisione dei pochi processi che la macchina trita-acqua chiamata Giustizia è riuscita a chiudere prima della prescrizione. Da quando l'informazione naviga sul web e non racconta più i fatti, ma colleziona clic fan, le sentenze definitive diventano provvisorie”. Scrive così Marco Travaglio, e come non dargli torto. Non si contano nemmeno più le circostanze in cui la Giustizia italiana si è dimostrata fallata in ambito processuale. Quante le sentenze che ci hanno lasciati attoniti, quasi al limite del disgusto. Serena Mollicone? Olindo e Rosa? Denise Pipitone? La Giustizia la stanno ancora aspettando. E se la magistratura arranca a fatica è qui che scendono in campo i familiari delle vittime. Perché non basta il dolore della perdita, in Italia la ricerca di verità e giustizia ha il potere di renderti un martire. Ma c’è sempre qualcuno pronto a puntare il dito: lo fa solo per avere visibilità, chissà quanto lo pagano per andare a parlare in tv e chi più ne ha più ne metta. Travaglio sembra non essere dello stesso avviso: “Si sfruttano le frustrazioni di parenti e amici delle vittime per riesumare mediaticamente le salme, in un eterno presente che non ammette verdetti sgraditi”. Sbagliati non sgraditi. Chi accetterebbe un verdetto simile? Nessuno. Sulla carta si fa presto a parlare quando si tratta della sorella, figlia, madre o padre di un’altra persona. Quando non ti tocca da vicino.
E Ancora: “Pantani non poteva essere dopato e non può esser morto di droga: dev'esserci qualcosa sotto. Pasolini non può essere stato ucciso da un ragazzo di vita: dev'esserci qualcuno dietro”. Pasolini al tempo era un personaggio che la società sentiva estraneo. Scomodo. Negli anni 70 non si aveva la stessa percezione che si ha ora di lui, della sua poetica, dei suoi scritti e dei suoi film. Pasolini è morto, ma a chi importava davvero se incolpare Pelosi è stato così semplice? Ucciso da uno dei suoi ragazzi di vita. Molto poetico. Ma vero? Da Pasolini a Emanuela Orlandi il passo è stato breve: “Poi ci sono i casi irrisolti, come il sequestro di Emanuela Orlandi. I depistaggi sono stati mostruosi, anche in Vaticano, almeno quanto gli errori della Procura di Roma. E noi tifiamo da sempre per il tenace e irriducibile fratello Pietro, che da 40 anni tiene viva l'attenzione dei media in cerca di verità e giustizia. Ma il peggior modo per ottenerle e sparare a casaccio”. Sì, chi scrive tifa per lui. Per un uomo che non si arrende, che porta avanti la sua battaglia anche se a volte si è ritrovato a lottare contro i mulini a vento. Per un fratello deciso, come giusto che sia, a non fare sconti a nessuno. Emanuela al momento della scomparsa aveva solo quindici anni e tutta la vita davanti. Un futuro che le è stato strappato.
“Qualcuno gli ha detto che ‘Papa Wojtyla se ne usciva la sera con due amici monsignori polacchi e non andava certo a benedire le case’, ma a rimorchiare ragazzine? Riveli ai giudici vaticani (non in tv) chi è stato, invece di tenerlo per sé, affinché si possa indagare. Se invece è soltanto una voce, avrebbe fatto meglio a tacerla, perché è talmente enorme che può screditare l'intera indagine: ammesso e non concesso che Giovanni Paolo II fosse il nuovo papa Borgia, è improbabile che il personaggio più noto al mondo andasse per minorenni senza che nessuno lo vedesse, lo fotografasse o almeno ne parlasse. Specie a Roma, dove i segreti durano quanto un gatto in tangenziale”. Eppure, guarda caso, il segreto sulla sparizione di Emanuela dura da quarant’anni. Tacere? E perché mai? Come può l’ipotesi che Wojtyla non sia stato uno stinco di santo fino in fondo, indignare più di una ragazzina che in un giorno come un altro esce di casa e non torna più. Screditare un’indagine che parte con quattro decenni in ritardo? Con un presupposto simile si scredita da sola già in partenza. Facile puntare il dito contro Pietro Orlandi, e nel mentre tutti si sono già dimenticati di Emanuela. Ancora una volta.