Come faceva quella della trave e della pagliuzza? Spiacenti ma, forse, il verbo evangelico sottovalutava l’importanza dell’occhio interessato, e del soggetto suo titolare. Quello di Augusta Montaruli, donna di destra senza prefissi, molto in vista in Fratelli d’Italia, deve soffrire di un leggero strabismo. Politico, si capisce. Dobbiamo alla sua evidente fierezza nella lotta alle droghe, di qualsiasi tipo e “peso”, la proposta di legge che inasprisce la pena massima per chi spaccia dosi anche di “lieve entità”, alzandola fino a 5 anni in modo da aprire le porte del carcere (sia pur “cautelare”, in quanto trattasi di “una condotta criminosa che non può che assumere contorni sempre più gravi”). Un macigno che seppellisce a priori ogni teorica ipotesi, aborrita come il Male incarnato da meloniani, salviniani e affini, di depenalizzazione delle droghe leggere.
Sai che novità, direte voi. Sull’uso della cannabis, diffusissimo trasversalmente ai poli e agli schieramenti, e persino sul concetto stesso di droga “leggera”, uno dei dogmi a destra è che sia tutta robaccia da rifiutare e perseguire in blocco. Ubriacarsi sì, farsi le canne, no: paletto invalicabile, sacro confine, regola aurea. Ma tant’è: ognuno c’ha le sue tristezze e le sue ipocrisie. La Montaruli però fa caso a sé. Attualmente ricopre la carica di vicepresidente della Commissione di Vigilanza della Rai, ma fino al 19 febbraio di quest’anno sedeva nel governo, in qualità di sottosegretaria all’Università. Quel giorno dovette rassegnare le dimissioni poiché la Corte di Cassazione, ultimo grado della nostra giustizia, confermò in via definitiva la condanna a 1 anno e sei mesi per peculato, relativa all’inchiesta “Rimborsopoli” risalente a dieci anni fa, quando ella era consigliera regionale in Piemonte. I giudici non hanno creduto alle sue versioni in merito ai soldi dei cittadini, per un totale di 25 mila euro, spesi per bar, ristoranti, borse, libri, orecchini e via così.
Tutti scontrini di lieve entità, più o meno (oddio, 195 euro per una borsetta di marca, “una sacca di tessuto”, non sappiamo quanto possa risultare una cosetta da poco, per chi magari vive ancora per qualche mese di reddito di cittadinanza ormai agli sgoccioli). Epperò, sempre di peculato si sta parlando. “Ho deciso di dimettermi dall’incarico di governo per difendere le istituzioni certa della mia innocenza”, ebbe a dichiarare lei, ventilando la possibilità di ricorrere, niente di meno, che alla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Legittimo, benché i diritti dell’Uomo dovrebbero avere a che fare con questioni di maggior momento che non la lunghissima lista compilata dalla Guardia di Finanza con i caffè e i pasticcini consumati nei weekend dalla Montaruli in veste di rappresentante del cittadino piemontese. “Ho la serenità di poter dire che non ho causato alcun ammanco alle casse pubbliche né altro danno alla pubblica amministrazione e ai cittadini”, infierì non paga. Come si dice: serena lei, sereni tutti. Però il posto nell’esecutivo l’ha perso. Probabilmente perché Giorgia Meloni, alla notizia della sentenza, tanto serena non era.
Ma ora la nostra indomita pasionaria può rifarsi agitando lo spadone crociato della guerra totale agli spaccini. Bene, bisogna dire. Ma non benissimo. Perché sì, è vero, la legalità è da difendere sempre, la legge è legge. E sì, la droga è, dice la formuletta obbligata, una piaga della società, sintomo di angoscia e autodistruttività (anche se dipende da quale, dal come e, appunto, da quali dosi, ma per la destra trionfante queste son tutte disquisizioni da centro sociale). Tuttavia, pure il peculato non scherza. Secondo un report di Transparency International, gli ultimi dati riferiscono che è il secondo reato dopo la corruzione, fra quelli che appestano la pubblica amministrazione. Subito dopo vengono la truffa e la turbativa d’asta. In crescita costante l’abuso d’ufficio, questo, invece, stando al Servizio Analisi Criminale della polizia. Sia come sia, l’uso improprio di fondi pubblici non è propriamente una fumatina di sigaretta di straforo dove c’è scritto “vietato fumare”. È fregare il contribuente. Fra l’altro, per fare shopping da Hermes o comprarsi l’indispensabile romanzo “Mia suocera beve”, “di cui non si coglie il nesso con l’evento letterario sulla violenza sulle donne, stranamente organizzato in notturna”, come osservavano i giudici della Corte d’appello nella prima delle due sentenze di secondo grado. Fumiamoci sopra. Tabacco autarchico, s’intende.