Assurdo ma vero, a finire sul tavolo degli imputati sono stati Pietro Orlandi e l’avvocato Laura Sgrò, mentre di Emanuela sembrano già essersi scordati tutti. Ma come si è arrivati a questo punto? Facciamo un passo indietro. Emanuela Orlandi è scomparsa da quasi quarant’anni, eppure, fino a qualche mese fa, sembrava non importare più a nessuno scoprire cosa le sia accaduto in quel caldo pomeriggio d’estate del 1983. Una ragazzina di soli quindici anni, cittadina vaticana, sparisce nel nulla e per lo Stato italiano e Vaticano per tutto questo tempo è andato bene così. La speranza, viene da pensare, era quella che prima o poi il ricordo di Emanuela cadesse nell’oblio. Ma non avevano fatto i conti con un fratello, Pietro, disposto a tutto pur di ritrovare sua sorella. Facile accusarlo di gettare infamia “a sensazione”, dimenticando che le frasi che negli ultimi giorni ha riportato sono il frutto di ben quarant’anni di indagini e ricerche condotte con l’ausilio di persone competenti. Nessuno si è svegliato una mattina decidendo di puntare il dito contro uno dei pesci più grossi della Chiesa per puro diletto. Pietro ha con sé documenti importanti, che dopo infinite richieste ha finalmente depositato in Vaticano, dopo essere stato ascoltato per quasi otto ore dal Promotore di Giustizia Alessandro Diddi. Da quell’incontro il caos mediatico. Il mondo si indigna solo per l’ipotesi che Wojtyla non sia stato uno stinco di santo fino in fondo, ma nulla da dire a favore di una ragazzina a cui le è stato sottratto il futuro. E c’è chi impiega il proprio tempo accusando Pietro di essere in cerca di visibilità, di infamare la memoria dei santi e chi più ne ha più ne metta. Chi scrive riesce a vedere solo un uomo che si sente ancora il fratello di una quindicenne da proteggere ad ogni costo. Tua sorella, in un giorno come un altro, esce per andare a lezione di musica e non torna più. Non torna più a casa. Se avesse voluto un colpevole qualunque se la sarebbe presa con qualcuno di più facile, ma Pietro per Emanuela vuole la verità.
Dopo il colloquio con Diddi, in cui è stato ascoltato in qualità di testimone, Pietro ha partecipato alla trasmissione DiMartedì condotta da Giovanni Floris in onda su La7. Qui è dove avrebbe pronunciato la frase incriminante nei confronti di Papa Giovanni Paolo II: “Mi dicono che Wojtyla la sera se ne usciva con due suoi amici monsignori polacchi, perché aveva bisogno di respirare una boccata d’aria fresca. Qualche dubbio mi viene. Qualcuno mi dice che non andava certo a benedire le case”. Da queste frasi sono venuti fuori innumerevoli titoloni di giornali, ma c’è chi si è attenuto alle sue esternazioni e chi le ha strumentalizzate. Pietro Orlandi non dice “ignobili parole”, come le ha definite il cardinale Stanislaw Dziwisz, al tempo segretario particolare di Wojtyla. Pietro ha riportato informazioni che seppur scioccanti sono documentate. Che si sia messa in moto una macchina del fango per screditarlo? Possibile. Perché viene così difficile pensare che il Papa o il Vaticano possano essere realmente invischiati nel rapimento di Emanuela? Senza dimenticare la partecipazione speciale della Banda della Magliana, che comunque potrebbe aver avuto solo un ruolo di manovalanza. Chissà che favore, o che Santo in paradiso avrà avuto Enrico De Pedis per ottenere un loculo nella Basilica di Sant’Apollinare. Ma questa è un’altra storia. Un titolone dopo l’altro sono arrivate anche le dichiarazioni, impacchettate di accuse, della Sala Stampa della Santa Sede: “Il Promotore di Giustizia, professor Alessandro Diddi, insieme al professor Gianluca Perone, Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei ripetutamente e pubblicamente richiesto, nell’ambito del fascicolo aperto sulla vicenda della scomparsa di Emanuela Orlandi, anche per fornire quegli elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi. L’avvocato Sgro si è avvalsa del segreto professionale”. In buona sostanza l’accusa rivolta a Pietro Orlandi e l’avvocato Sgrò sarebbe quella di essersi rifiutati di fare i nomi delle persone coinvolte nelle chat. Questa giunge nuova. Immediata la replica del legale, diffusa a mezzo di comunicato: “Sono stata convocata dal Promotore di Giustizia, dal quale mi sono prontamente recata. Il Promotore mi ha mostrato una mia istanza dell'11 gennaio u.s. nel quale Pietro Orlandi e io, in qualità di avvocato della famiglia Orlandi, chiedevamo un incontro per presentare le prove in nostro possesso. Ho chiarito, come era già chiaro, al Promotore che evidentemente la persona che doveva essere ascoltata era il solo Pietro Orlandi e che questo era già avvenuto qualche giorno fa. Per quanto riguarda, invece, una mia personale audizione come persona informata sui fatti, essa è evidentemente incompatibile con la mia posizione di difensore della famiglia Orlandi e dell'attività in favore della ricerca di Emanuela che sto svolgendo. Questo è quello che ho pacificamente rappresentato, come avevo già fatto telefonicamente e via mail, al Promotore di Giustizia e a tutti i presenti. violare il segreto professionale vuol dire non consentire a un difensore di mantenere la propria posizione differenziata, vuol dire alterare i propri rapporti, la propria credibilità, la propria libertà di azione, intralciando il diritto alle proprie autonome indagini”. E fa ridere pensare che c’è chi l’accusi di aver fatto scena muta o di star ostacolando le indagini. Ma la migliore frase a effetto è arrivata proprio da Alessandro Diddi: “Dall’avvocata Laura Sgrò una battuta di arresto enorme nel cammino per la verità. C’è poco da pensare: in questi mesi abbiamo lavorato sulle piste da approfondire e ora, dopo quanto successo, io non so come andare avanti. Al momento non posso che prendere atto di questa situazione inspiegabile. Noi ci siamo messi a disposizione, in silenzio e senza dare nell’occhio, ritenevano che non stessimo facendo nulla, ma come abbiamo dimostrato non era così. Adesso che devono darci le informazioni importanti si tirano indietro: è inspiegabile. Non riesco a capire. Inizio quasi a pensar male, ma al momento prendo atto e basta”.
La situazione inspiegabile è l’aver aperto un’indagine dopo quarant’anni dalla scomparsa di Emanuela, e l’aver convocato Pietro dopo mesi e mesi di richieste cadute nel vuoto. Per fortuna non tutta la stampa è asservita al Vaticano, e si può scegliere a chi dare voce. Questo è il messaggio che Pietro ha condiviso sul suo profilo Facebook: “Ma com’è possibile che dica certe cose Diddi? Che abbiamo riferito alle telecamere cose che non dovevano essere dette perché parte dell’inchiesta? Ma se lui stesso mi ha detto ‘non metto il segreto istruttorio puoi dire quello che vuoi’. E io ho chiesto se potessi dire che loro avevano iniziato le indagini, che era una cosa positiva per loro, e Diddi mi ha detto ‘certo che puoi’. Ora dicono che noi ci tiriamo indietro, ma come possono arrivare a dire questo. Gli ho fornito i nomi su cui indagare, per fare importanti passi avanti. Dei messaggi WhatsApp, la trattativa con Capaldo, i rapporti con le istituzioni inglesi, l’audio senza bip di chi accusa Wojtyla, e la loro più grande preoccupazione è sapere chi diceva delle passeggiate serali fuori le mura del Papa? Ma mezzo Vaticano lo diceva, e chi me l’ha detto direttamente non è più tra noi, e allora a che serve sapere quel nome? Era una bravissima persona e di totale attendibilità. Lo capirebbe anche un bambino che questo è solo un appiglio, una scusante. Se vogliono essere persone oneste e serie, e se ci fosse veramente volontà a fare chiarezza, convocherebbero le due persone vicine a Papa Francesco che si scambiavano messaggi, su telefoni riservati della Santa Sede, riguardo ad Emanuela. I nomi li hanno, e ne abbiamo parlato in maniera approfondita. Oppure convocassero Marcello Neroni, è lui che fece dichiarazioni pesanti su Wojtyla, non io. Lo convocassero per capire perché le ha dette. Oppure chiedessero all’arcivescovo Carey come mai si scambiava lettere col Cardinal Poletti in riferimento ad Emanuela. O chiedessero a quell’ex funzionario della gendarmeria che mi disse che appena saputa la notizia della sparizione di Emanuela, andarono subito da quei cardinali che avevano il “vizietto” con le ragazzine per sapere se avessero responsabilità. Lo convocassero affinché possa dire i nomi di quei cardinali, perché non è normale che nell’83 il “vizietto” fosse accettato tranquillamente da tutti. Gendarmeria compresa. Se vogliono fare veramente qualcosa convocassero le 28 persone di cui abbiamo fatto i nomi. Nella memoria, molto dettagliata, abbiamo spiegato accanto ad ogni nome perché sarebbe importante ascoltarli. E invece loro, come i bambini capricciosi, puntano i piedi perché non sanno chi ha messo in giro il “pettegolezzo” sulle uscite di Wojtyla e considerano questo fatto una battuta d’arresto nelle indagini. Peccato tutto ciò, ero convinto della serietà e onestà di questa inchiesta, mi auguro si rendano conto che stanno sbagliando e che sono partiti col piede sbagliato. Lo sappiano, raggiungerò lo stesso l’unico obbiettivo che mi interessa: dare giustizia ad Emanuela. La verità state certi uscirà tutta. Senza sconti a nessuno”. Poteva terminare qui? Ovvio che no. Stamattina Papa Francesco, durante l’Angelus, ha preso le parti di Giovanni Paolo II: “Wojtyla è oggetto di illazioni offensive e infondate”. Poteva mancare l’applauso dei fedeli presenti a San Pietro? Ovvio che no. Potrà anche essere stato oggetto di illazioni, ma non bisogna dimenticare da dove provengono queste frasi incriminati. E non stiamo certo parlando di Pietro Orlandi, ma di Marcello Neroni. Pietro, dal canto suo, ha rispedito le accuse direttamente al mittente: “Io mi sono limitato a portare l'audio al Promotore. Papa Francesco mi disse “Emanuela e' in cielo”, sono illazioni o ha le prove?”. Qualcuno se lo è mai chiesto? Qui l’applauso lo fa chi scrive.