È morto Gianni Vattimo, l’ultimo grande filosofo italiano. Questo vuol dire molto. Grande non vuol dire che avesse sempre ragione. Ultimo non vuol dire che non ne verranno altri. Semplicemente, se ne va l’ultimo testimone di una stagione filosofica che in Italia non tornerà più nel suo complesso. Un pezzo se ne andò prematuramente con Franco Volpi, un altro pezzo sparì con la morte di Emanuele Severino. Sono stati, quest’ultimo e Vattimo, due capiscuola, due fondatori di correnti, il neoparmenidismo e il cosiddetto pensiero debole, ovvero un pensiero forte fatto di valori deboli, di convinzioni deboli, di verità con la v minuscola, se non del tutto trasparenti. Gianni Vattimo ha sofferto, nella sua vita, del più grande dei mali: la felicità delle idee, l’eterna giovinezza dei grandi pensatori, alimentata nel corso degli anni da grandi incontri (con Gadamer, con Girard), ma soprattutto da un’attenta capacità introspettiva, che ha permesso alla sua opera di comprendere tutto, o quasi, ciò che davvero poteva contare nella vita, dalla politica alla fede, passando per l’Essere e l’amore.
Amore che hanno fatto di tutto per estirpare da quei suoi ultimi anni di vita, passati accanto a una persona denigrata, Simone Caminada, a sua volta vittima dei peggiori topoi giornalistici: lui, giovane arrivista, l’altro, il Filosofo, confuso e senile. Niente di più diverso. In un’intervista a Gianmarco Aimi per Rolling Stone Italia, parlando della filosofia ricordò: “È un modo di essere presente alla propria storia”. E come può, uno dei filosofi più grandi della storia italiana recente, non essere presente a se stesso? Ma l’ingiuria che colpisce i filosofi, come fin troppo spesso i pazzi, non è che un modo per evitare di confrontarsi con chi dà filo da torcere alla propria visione del mondo. Ma pur sempre filo, aria, sangue per il vivere e sopravvivere del pensiero. Se ne va l’ultimo grande filosofo italiano, uno scrittore dotato di un certo gusto per la poesia, a cui dedicò un libro, Poesia e ontologia (oggi raccolto nella sua Opera Omnia pubblicata da La Nave di Teseo). Ed eccolo il messaggio: l’essere è l’opera d’arte. Il disvelamento e, con esso, mille altri valori per andare oltre la rigidità degli schemi morali e filosofici ormai entrati in crisi. Così la morte di Dio non è la fine di tutto, ma l’inizio di tutto il resto.
In altre occasioni si potranno problematizzare le conclusioni di Gianni Vattimo, perché si potrebbe giustamente obiettare che la rigidità dei valori non è fatto meramente istituzionale, ma un fatto ben più dinamico e meno rigido di quel resto, perché il risultato di una storia, mentre i nuovi valori, almeno finché non iniziano e quindi fin quando seducono per la loro novità, non sono che all’inizio, non sono che un mero dato di fatto, senza evoluzione alcuna. Ma ora è doveroso ricordare un capitolo che si chiude non solo della storia della filosofia italiana, ma della tettonica concettuale che nel Novecento ha portato ad avere in Italia dei veri riferimenti internazionali al di là delle peer-review, cioè di quell’atteggiamento burocratico che, se si adatta a molti temi, non si adatta a tutte le discipline. Gianni Vattimo ha saputo conservare della filosofia quel “fare filosofia” oltre la mera professione, nell’impegno politico e umano; a favore tanto dell’emancipazione sociale, quanto del rinnovamento dello spirito, anche attraverso un cristianesimo ermeneutico, debole, che, impone all’anima e al pensiero un solo limite, nessuno.