Dopo l’arresto degli ex membri di gruppi terroristici dell’estrema sinistra, che godendo della dottrina Mitterand dalla fine degli anni ’70 si trovavano in Francia come rifugiati politici, non sono mancate le reazioni contrastanti. Da un lato, chi ha esultato perché finalmente potranno pagare per i reati commessi. Dall’altro, chi pensa che far scontare una pena a tanti anni di distanza e a persone ormai anziane rientri più nell’ambito della vendetta che nell’esercizio della giustizia.
Fra questi ultimi, c’è Gianfranco Manfredi. Da tempo lavora nel mondo dell’editoria e del fumetto, ma negli Anni di Piombo fu uno dei cantautori simbolo, in grado di esprimere in musica le rivendicazioni dei giovani della sinistra extraparlamentare. Nel suo primo album del ’72, che si intitolava non a caso “La crisi”, sono infatti descritti quei giovani divisi tra la violenza dei gruppi organizzati, l'ironia dell'ala creativa del Movimento Studentesco e la riflessione sugli aspetti più personali dell'impegno politico. I titoli erano emblematici: E Giuseppe leggeva Lenin, Sei impazzita per Marcuse, Lamento per i compagni usciti dall'organizzazione o La proletarizzazione. E in seguito accompagnò con queste ballate la sua generazione verso il periodo più oscuro. Nell’album del 1976 “Ma non è una malattia”, mise alla berlina i luoghi comuni della “nuova sinistra” parlamentare con testi di questo tenore: “Non aspettarti comprensione da lui, son troppi anni che non prende più il tram, lui non ricorda com'è fatta una galera o non c'è mai stato; e poi fa finta di litigare con quell'altro solo quando la telecamera è sul rosso”. E ancora, temi cari ad Autonomia Operaia, come gli “espropri proletari” (“T'ho incontrata a Quarto Oggiaro davanti al Supermarket saccheggiato”) e persino la lotta armata (“Forse ho un poco paura del fantasma del Che, qualche volta lo sento proprio dentro di me; non è sulla maglietta che mi sorriderà: forse in una doppietta più sereno sarà”).
Dopo aver letto un suo post particolarmente critico, lo abbiamo contattato e ci ha spiegato che, a suo dire, sugli arresti “viene da pensare a un criterio di giustizia puramente punitivo”. Questo perché i processi sarebbero stati influenzati dalle leggi speciali entrate in vigore proprio per contrastare il terrorismo e che inseguito non permisero di ottenere le richieste di estradizione visto che “in altri paesi non erano sostenibili come reato”. Ci ha poi restituito un clima che forse, a distanza di tanto tempo, è difficile da comprendere e che lo fa arrivare a sostenere che “se personalmente fossi stato coinvolto in una simile caccia, sarei scappato in Francia, in Brasile o ovunque possibile, pur di non consegnarmi a quella giustizia di Stato che calpestava ogni principio di legalità”. E anche sui familiari delle vittime, che attendevano un gesto simile dalla Francia, ha dichiarato: “Quale sistema legale consente che sul giudizio pesino i familiari? Quello islamico”.
Manfredi, da quanto si legge nel suo post non sembra che questi arresti siano in grado di chiudere una stagione particolarmente complessa del nostro paese, nonostante quel che si legge da diversi commentatori. Come mai?
La chiusura è prettamente una ricostruzione giornalistica, perché è inaccettabile. Sappiamo tutti che non è per niente chiusa. Intanto sono anni che si trascinano processi che non hanno avuto alcuna conclusione, mentre altri non sono neanche mai cominciati. E poi, bisogna ricordare che ci furono molti casi di morti, o omicidi, che furono clamorosi anche fra i manifestanti. Quelli più emblematici furono di Giuseppe Pinelli e Giuliana Masi. Su di loro nessuno mette in dubbio che siano stati uccisi, eppure i responsabili non sono mai stati accertati. Chiudere non è solo una questione giudiziaria e rispetto a fatti politici bisognerebbe trovare una soluzione politica.
In che senso?
Che anche di recente sono emerse nuove testimonianze e correzioni, come per esempio nel caso Moro. Ci sono ancora pagine particolarmente oscure in merito alle responsabilità politiche. Quelle pratiche si sanno, solo che intorno a certe vicende non è ancora tutto chiaro.
Lei è d’accordo con Adriano Sofri, che su Il Foglio ha scritto: “Ora che li avete arrestati, che ve ne fate di questi ex terroristi?”
Ma certo. Io ho seguito da vicino le vicende legate al Processo 7 aprile (contro membri e presunti simpatizzanti di Autonomia Operaia, nda) di persone che ho conosciuto e, a parte per le accuse di omicidio, l’estradizione non è possibile perché legata a reati come “partecipazione a manifestazione sediziosa”. In pratica, a tutta una serie di imputazioni che all’estero non erano sostenibili perché introdotte dalla legislazione di emergenza di quegli anni. Ricordo quando Gianfranco Fini, nel primo governo Berlusconi, partì lancia in resta per riportare in Italia una serie di persone fuggite alla fine degli anni ’70 e non riuscì a ottenere nulla proprio per queste ragioni.
In questi casi, pare che tutti debbano rispondere di fatti di sangue…
Sì, ma intervenire con delle punizioni decenni dopo, qualsiasi sia il reato, mi sembra sbagliato. Se hai compiuto un reato quando avevi 16 anni e poi ti vengono a prendere quando ne hai 70 e sei malato, viene da pensare che il criterio di giustizia che si vuole applicare sia puramente punitivo. È una applicazione della legge che sfugge dalla logica. E poi, come sottolineava anche Sofri, se uno per molti anni non ha commesso alcun tipo di reato, non si capisce perché debba essere processato per qualcosa che ha abbondantemente già scontato.
Lei crede che, nonostante non siano stati in carcere, siano ormai riabilitati?
Non ci sono dubbi che abbiano vissuto in Francia 20-30 anni senza commettere nessun tipo di reato. Il caso Battisti invece non calza, perché aveva commesso reati ma in Brasile. Dopodiché, sui singoli uno può anche discutere, ma non si può ragionare all’ingrosso come se lo stesso giudizio e le stesse responsabilità ricadessero su tutti. Ricordo l’accusa a Toni Negri di essere il telefonista delle Brigate Rosse che non stava né in cielo né in terra, resta il fatto che quando ti vengono rivolte accuse di questo genere non si può biasimare se poi uno piglia e se ne va.
Quindi fecero bene ad espatriare?
Bisogna capire che cos’era la legislazione d'emergenza. Uno degli esempi più clamorosi fu il processo torinese a persone che avevano ospitato presunti terroristi. All'epoca, i compagni usavano ospitare a casa chiunque avesse bisogno. Sul piano della solidarietà politica si erano ospitati palestinesi, cileni, profughi di ogni provenienza. Ci ospitavamo a vicenda anche quando qualcuno di noi temeva, persino a torto, di venire arrestato all'alba a casa sua. Non si chiedeva a nessuno se avesse o no fatto qualcosa, tantomeno cosa avesse fatto, era una forma di solidarietà contro un sistema che arrestava gettando la rete a caso, per pura intimidazione. La cosiddetta "dissuasione" non consisteva nella pena, ma nelle retate indiscriminate e sulla base di nozioni legali inedite come l'"associazione esterna". Questa legislazione d'emergenza fece schifo al mondo.
Per cui, se fosse capitato a lei avrebbe fatto lo stesso?
Da qui nacque la dottrina Mitterand e anche il rifiuto di altri paesi, come il Brasile, a estradare profughi politici italiani. La nostra legalità d'emergenza, appariva antidemocratica e illegale, in generale, a prescindere dalle responsabilità effettive dei singoli. Se non si capisce questo, non si capisce nulla. Le sentenze pronunciate in quel periodo erano frutto di una legislazione che non garantiva diritti alla difesa. Se, personalmente, fossi stato coinvolto in una simile caccia, sarei scappato in Francia, in Brasile o ovunque possibile, pur di non consegnarmi a quella giustizia di Stato che calpestava ogni principio di legalità, come mai era accaduto prima. Mi sono salvato dalla retata del 7 aprile, per un motivo ridicolo. Marco Barbone che aveva compiuto azioni dissennate quali io non mi sarei neppure sognato, diventato collaboratore di Stato, interrogato a proposito del giro cui appartenevo, disse: “Quelli sono solo dei fricchettoni”. Mai sono stato così grato per essere stato ingiuriato.
A quell’epoca, lei ha tradotto in musica molte delle rivendicazioni della sinistra extraparlamentare. Ma c’è qualcosa di cui si pente, riguardando a quegli anni?
Ognuno fa la sua parte. Io ho semplicemente documentato quello che succedeva. Per esempio, Giorgio Bocca all’inizio sosteneva che le Br non fossero ricollegabili alla Resistenza e neanche rosse, ma un tentativo di gettare discredito nei confronti della sinistra. Poi li ha incontrati in carcere e si è convinto di quale fosse il loro reale retaggio ideologico. Oppure, all’inizio della comparsa delle Br abbiamo letto anche su giornali di sinistra che non erano “dei nostri”. Tutto si poteva dire, ma non stupidaggini del genere. Qualcuno ha mai chiesto scusa ai lettori?
Mi sta dicendo che le accuse che gli vengono rivolte potrebbero essere fittizie?
Ho seguito il caso Tortora, partecipando anche alle dirette Tv da casa sua con il Partito Radicale. L’ho seguito da vicino e ho constatato com’era difficile ottenere solidarietà dal mondo dello spettacolo nonostante lo conoscesse benissimo. Circolava questa idea colpevolista a priori. Ma come al solito, quando è stato assolto non ho visto poi i titoli dei giornali che spiegavano dell’errore commesso. Oppure, faccio notare che poco tempo fa per l’anniversario di Piazza Fontana sono state ricostruite le notizie come se allora tutti i giornali fossero unanimi nel giudizio sui colpevoli, mentre invece scrivevano al 95% che erano stati gli anarchici e Valpreda. Basta andare a prendere i quotidiani dell’epoca e conoscere il quadro alterato che veniva dato di quel che accadeva. Una mala informazione che veniva diffusa, anche grazie ai servizi deviati, che ha costruito ad arte una realtà che non coincideva con la realtà dei fatti.
In tutto questo, come dovrebbero sentirsi i familiari delle vittime?
Per quale motivo non si considerano i familiari delle vittime dell'Italicus, i familiari di Pinelli e di Giorgiana Masi? Ci sono familiari che contano di più degli altri? E quale sistema legale, in ogni caso, consente che sul giudizio pesino i familiari? Ma il familiare che ritiene attraverso la cattura di quei sette di aver avuto giustizia non è un dato, perché in un paese democratico non dovrebbe avere voce in capitolo su condanne e assoluzioni. Al massimo in un discorso di opinione pubblica. La signora Calabresi, per esempio, sull’arresto di Pietrostefani ha detto che per lei non è stata una giornata di gioia o soddisfazione se viene portato in carcere un anziano e malato a distanza di tanti anni.
Sempre nel suo post, ha aggiunto: “Quale sistema legale, in ogni caso, consente che sul giudizio pesino i familiari? Quello islamico”. Un accostamento piuttosto forte.
Di fatto è così. Ci sono casi in molti paesi islamici nei quali sul tipo di punizione viene data voce alle familie delle vittime che è in grado di orientare il giudizio. Ma non è possibile in democrazia. Come nel caso di Beppe Grillo. Un padre può pensare quel che vuole, ma non può essere tenuto in conto al fine del giudizio di un fatto. O come a Napoli, dove un intero quartiere si è ribellato perché hanno sequestrato il busto che era stato eretto in onore di un camorrista. Anche quei familiari, per la fine che ha fatto il figlio, nella loro logica potevano rivendicare un dolore. Ma possiamo stare dietro a queste cose qui dal punto di vista giuridico? Sarebbe una barbarie assoluta. Su certi casi così complessi, dire che si sono risolti è un atteggiamento superficiale e per chi si occupa di storia è molto triste, perché si aderisce a quel che risulta più opportuno sostenere al momento.