Nel 2025 può ancora esistere l'arte? In un mondo in cui ogni minima scintilla di creatività sembra non avere alcun valore se non monetizza, quale forma d’arte riesce a rimanere pura, non trasformata e adattata per essere vendibile? La musica, una delle espressioni più antiche dell’essere umano, ha subito lo stesso destino dei libri, delle bambole e delle scarpe: l’industrializzazione. L’artista di oggi, che sia musicista o cantante, se riesce a raggiungere il successo e a guadagnare con la propria vena creativa, quasi sempre deve adattarsi alla macchina industriale che lo vuole spremere come un’arancia. Certo, alcuni diventano talmente ricchi da suscitare invidia dall’esterno. Ma non è tutto oro quel che luccica: basta pensare a tutte le Amy Winehouse che, travolte dalla pressione, sono cadute nella spirale di droga e depressione fino a perdere la vita. Quando conquisti una fanbase enorme, sei costretto a vivere per sfamarla. Ti acclamano e ti adorano finché li sazi con nuove canzoni, nuove uscite, nuovi tour. Ma appena restano a digiuno, l’adulazione lascia spazio alla frustrazione. E questo non dipende più solo da te, ma dal team che gestisce ogni dettaglio del tuo lavoro. È quello che è successo ad Ariana Grande: per anni ha interpretato un personaggio imposto, iper-sessualizzato, collezionando hit mondiali, mentre nascondeva i propri dolori e traumi personali - la morte per overdose di un ex fidanzato e l’attentato al concerto di Manchester. Dopo anni di silenzio, ha annunciato un nuovo tour. Un tour che include tappe negli Stati Uniti e… a Londra. Dieci date a Londra, ma nessuna in altri Paesi europei. Strano, no? I fan hanno reagito con rabbia: un intero continente costretto a contendersi gli stessi biglietti, quasi impossibili da ottenere. E i costi? Astronomici. Le prevendite sono state divorate dai bagarini, che ora rivendono i biglietti a partire da 600 euro, a cui vanno aggiunti viaggio e pernottamento. Una vera e propria truffa.
Ed è qui il nodo: più un artista diventa idolo, più cresce la domanda e l’esclusività, e più i prezzi dei biglietti salgono fino a diventare inaccessibili. “Sono le leggi dell’economia”, si dirà. Ma la musica dal vivo, un’arte che ha il potere di unire le persone quasi come faceva il teatro nell’antica Grecia, non dovrebbe ridursi a un lusso per pochi. Non dovrebbe costringere la gente a spendere metà stipendio per qualche ora di felicità. E non parliamo solo del pop. Anche altri generi soffrono della stessa logica. I biglietti per la data dei System of a Down agli I-Days di Milano nel 2026 partono da 138 euro: i fan si sono ribellati, e hanno ragione. Ormai tutti i concerti partono dai 100 euro: cifre che una volta ti garantivano un pacchetto VIP con tanto di meet & greet. I Radiohead a Bologna costano 100 euro, eppure i biglietti sono andati sold out nonostante molti avessero invocato il boicottaggio per le simpatie politiche del cantante. Il copione è sempre lo stesso: la gente si lamenta, ma paga. E così i prezzi continuano a salire, perché nessuno vuole perdersi “l’evento”. E in effetti ce ne sono tantissimi: ogni settimana ci sono tour, festival, live imperdibili. Chi ascolta generi diversi si trova sommerso dalle occasioni, ma deve anche fare i conti con un portafogli che non regge. Certo, tutto è aumentato dopo il Covid-19: biglietti, viaggi, cibo… tutto tranne gli stipendi. E allora la domanda resta: che valore ha ancora l’arte, se per viverla bisogna dissanguarsi economicamente? Forse la risposta sta nel riscoprire la musica come esperienza condivisa, fuori dalle logiche spietate del mercato. Tornare nei piccoli club, nei teatri, nei festival locali, dove l’artista è vicino al pubblico e non imprigionato in un’industria che lucra sulle emozioni. Forse l’arte non è morta: è solo nascosta, in attesa che torniamo a riconoscerla non come merce, ma come nutrimento dell’anima.
