E io pago. Lo diceva Totò in “47 morto che parla”, lo dice anche il povero distributore che decide di portare, di solito da Hollywood, un film nel proprio mercato nazionale. Legittimamente, paga al produttore o all’agenzia internazionale il diritto di proiettarlo nelle sale, del proprio Paese, ma non solo quello. No, perché c’è un segreto di Pulcinella ai festival internazionali, che vi farà sorridere, a voi che la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (e Cannes, Locarno, Berlino, San Sebastian e Toronto e via elencando) la vedete - beati voi - solo nei servizi dei tg che di solito parlano per massimo 7 secondi dei film nei concorsi e in anteprima e per 70 di red carpet tutti uguali. Un’intervista può costare cara in un Festival. Molto cara.
No, non parliamo della fatica, dei chilometri, delle telefonate che possono volerci per farla. Qualche anziano signore o signora, maestra o maestro di giornalismo, inviati che si son fatti grandi rassegne cinematografiche e Olimpiadi nella trincea di hotel pentastellati e ancora se ne vantano neanche fosse il Vietnam, vi racconteranno di come hanno conquistato gli scalpi di divi, grandi cineasti, produttori. E in parte saranno aneddoti circondati di un’aura eroica esagerata, ma almeno nella sostanza veri. C’è stato un tempo in cui bastava avere spirito d’iniziativa, credibilità, uno sguardo originale e riuscivi a intervistare anche i nomi più complicati, autori di capolavori, vincitori di Oscar. Valeva, non sempre ma spesso, il tuo valore di giornalista, la tua professionalità e sì, anche la bella figura che avresti fatto fare a chi aveva brigato per farti essere davanti a quel genio, a quella bellezza stordente, a quel talento straordinario.
Levatevi dalla testa tutto questo, ora. Adesso, nel 2024 - ma a dirla tutta, va così da almeno una dozzina d’anni, se non 15 - c’è un listino prezzi. No, non è il giornalismo in vendita, ma direttamente l’intervista. Ehi, non indignatevi, non c’entra nulla Fabrizio Corona nella strage di Erba che vendeva il vedovo un tanto al chilo e neanche Avetrana e i suoi abitanti che si facevano pagare qualche centinaio d’euro, se non migliaia, dei pettegolezzi mascherati da esclusive, incuranti della tragedia della piccola Sarah Scazzi. O forse sì, la logica, diciamocelo, è la stessa, per squallore e monetizzazione. Meno infame, perché in fondo il cinema è una delle cose più importanti tra le cose poco serie. Qui non si salvano vite umane, al massimo il gusto estetico.
Torniamo però alla (non) notizia, tornata alla ribalta per il giusto e frustrato appello di qualche decina di inviati internazionali rappresentanti del giornalismo cinematografico, capitanati dall’alacre e valido collega Marco Consoli. Sul gruppo Facebook “International Film Festivals Journalists” è stato firmato da molti questo testo:
“Il giornalismo cinematografico rischia l'estinzione. La Mostra del Cinema di Venezia è appena iniziata e sappiamo già che molti film in anteprima mondiale quest'anno non rilasceranno interviste alla stampa. Zero, niente, di niente. Questa decisione, influenzata dagli studi e sostenuta da molti publicist (potremmo semplificare dicendo che sono uffici stampa, ma non sarebbe esatto, è un ruolo ibrido che cura la comunicazione nelle major del talent come del film, spesso all’interno dell’azienda e non come in Italia, come società esterna), mette in pericolo un'intera categoria di giornalisti, in particolare liberi professionisti, che con il loro lavoro appassionato e implacabile spesso aiutano al successo dei film, danno voce e prestigio a registi e attori, e contribuiscono ad accendere il dibattito su progetti che mirano agli Oscar, ai Golden Globe e ad altri prestigiosi premi. Dopo aver sciopero per mesi a Hollywood per salvare migliaia di posti di lavoro, ora registi e attori, abbracciando la politica degli stessi studi e produttori che prima erano loro nemici, mettono a rischio altrettanti posti di lavoro, negando interviste ai giornalisti che riescono a sopravvivere grazie a quelle interviste.
In questi giorni, a causa dei rapidi e profondi cambiamenti nel panorama mediatico, sempre più giornalisti diventano liberi professionisti, il che significa che si sostengono da soli. Questo significa che fanno quello che viene chiamato “pitching” per vendere storie che gli permettono di sopravvivere. Ogni giorno, lavorano per scrivere di ciò che è più significativo, innovativo e di grande valore artistico. Ma i punti vendita favoriscono sempre nomi, stelle e progetti mainstream. Se i giornalisti ottengono quelle star, allora possono anche assicurarsi che i registi esordienti, gli innovatori, insieme a tutti gli artisti di grande talento con meno fascino commerciale possano avere la loro esposizione ai media, attraverso il loro impegno. Proprio come gli organizzatori hanno bisogno di grandi star affinché gli occhi del mondo si rivolgano all'evento, la stampa internazionale ha bisogno di interviste con loro affinché il loro lavoro sia praticabile.
Dopo i tappeti rossi dello scorso anno privi di star di Hollywood e la maggior parte dei registi coinvolti negli scioperi SAG-AFTRA e WGA, questa edizione promette di essere piena di stelle. Il problema è che quasi tutti i protagonisti della 81esima Mostra del Cinema non saranno disponibili per attività stampa se non per camminare sul tappeto rosso e parlare alla conferenza stampa ufficiale. Questo messaggio “solo attività sul tappeto rosso” dei pubblicisti si sta accumulando da un po', anche durante altri festival, come Cannes e Berlinale. Tuttavia, la portata della loro indisponibilità durante questo festival imminente è senza precedenti. Il festival sta portando nomi per ottenere prestigio ed esposizione mediatica ma poi sembrano sviluppare amnesia quando si tratta dei giornalisti veri.
Lo troviamo scioccante e profondamente preoccupante. Chiediamo di cambiare questa politica che da tempo contamina tutti i principali festival e di tornare a offrire interviste alla stampa ai festival del cinema. Oggi la manifestazione è appena iniziata, ma presto potrebbero esserci centinaia di giornalisti e punti vendita che boicottano film e artisti che negano l'accesso alle interviste ai festival. Alla fine la protesta potrebbe coinvolgere i festival stessi, che rischiano di vedere la partenza di centinaia di giornalisti e pubblicazioni accreditati e dove il commento ai film e l'opinione dei loro autori sarà lasciato all'intelligenza artificiale”.
Insomma, per i precari dell’informazione, per chi non è interno a una grande testata, negli ultimi anni, è quasi impossibile ottenere un’intervista con le star. E giustamente questi accreditati, che rappresentano l’85% (e calcoliamo per difetto) del popolo degli accreditati, quelli che possono, tutti insieme, stabilire il successo o il fallimento di una rassegna, è negata la possibilità di fare il proprio lavoro al meglio. Alberto Barbera ha pilatescamente detto “verificherò” ricordando che poi sono soggetti privati che al di là di red carpet, conferenze stampa e presenza in sala non devono nulla alla Mostra, in termini di impegno. I grandi quotidiani non hanno ovviamente parlato della cosa. Ovviamente, per un motivo ben preciso. Perché se vuoi un’intervista con una star devi pagare.
Quello che è interessante è che non paga il giornalista, non paga il giornale, paga il distributore. Già, chi già spende una cifra considerevole per acquisire i diritti di una opera d’arte, poi per gli slot di registi, attori e affini deve pagare un’extra. E non simbolico. Si superano i 2000 euro per i divi di prima fascia (a intervista), a volte ci si accontenta di spicci (500-1000). Per una sorta di gentlemen agreement chi ha lavorato in grandi major ci confessa che però per i giornalisti della manifestazione ospitante, non si paga. Il distributore italiano quasi sempre, insomma, a Venezia può evitare di sottostare a quest’insopportabile ricatto. Ed ecco quindi che magicamente i protagonisti proprio non possono fare interviste singole in Laguna, devono ripartire subito o hanno esclusive altrove. Magari nella quasi contemporanea Toronto, o nell’immediatamente successiva San Sebastian. Festival che peraltro coprono mercati decisamente golosi (Nord America e paesi ispanofoni).
Consoli, insomma, con coraggio racconta qualcosa che viviamo da anni. Ovunque. A Cannes nel 2012 Brad Pitt “costava” 2500 euro (ora, ci dicono, l’età e un posizionamento meno vantaggioso ha dimezzato il suo prezzo, venghino signori verghino). Kristen Stewart che ne costava 1500, va via a un terzo, massimo la metà. E allora che fanno i distributori nazionali, che siano a loro volta major o indipendenti. Dovendo pagare loro massimizzano l’investimento. Due quotidiani tra i più letti, un periodico di nome (di solito difficile che acquistino più di 3-5 slot), un tg e una grande trasmissione se possono non venire in studio. Se si muovono le influencer (nel cinema sono tutte donne e nel loro lavoro anche brave), meglio ancora loro, con i loro eserciti di follower, che sono preferiti, nella logica del marketing, ai lettori. Si inventano siparietti a volte anche geniali, e chissenefrega, viva l’infotainment. E tutti gli altri urlino dai margini del red carpet o si accontentino delle affollatissime e sempre uguali press conference. E giornalisti e uffici stampa umiliati nella loro professionalità, entrambi tagliati fuori, entrambi ridotti a passacarte.
Ovvio che il precario o come Consoli più dignitosamente e generosamente lo definisce il libero professionista, che prima deve fare l’intervista e poi così può “venderla” rimane tagliato fuori. Non è conveniente, non sai dove la pubblicherà, potrebbe costare troppo per quello che poi restituirà al film. Che sempre di più peraltro non è trattato come un’opera artistica, ma come una mucca da mungere, non da valutare nella sua totalità e in tempi lunghi perché rimanga nella memoria, ma in tempi cortissimi e possibilmente sotto le uscite (e così in barba alla libertà d’espressione arrivano gli embarghi: intervisti, ma puoi usare quelle parole solo mesi dopo, una cosa illegale e non deontologica che ormai è data per normale da tutti).
Tutto questo, ma è un’altra storia, è un modo per uccidere la varietà dell’informazione, sguardi originali, in favore di un conformismo intellettuale ed estetico. Perché quei precari che vengono penalizzati sono gli stessi che finiranno per pagare, se molto oculati e capaci di sacrificarsi, 1500 euro circa per mantenersi al Lido (anche più di 2000 a Cannes). In Laguna, infatti, vive una specie affascinante, i Vampiri della Mostra. No, non è una sezione horror appena inventata da Alberto Barbera, ma gli abitanti di questo luogo poco ameno che succhiano via ogni risorsa economica al popolo festivaliero. Se a un grande film di Hollywood di solito costa almeno 500.000 dollari la trasferta, ai poveri cristi che scrivono e fanno informazione viene imposta una tassa che doppia se non triplica i prezzi consueti. Ogni esercizio commerciale affila i canini, dall’acqua minerale a pranzi e cene, nessuna spesa è sostenibile (all’Excelsior poi si arriva a vette deliziose, tipo colazioni fugaci che sfiorano i 30 euro).
E le case in affitto: tuguri, caverne mascherate, luoghi in cui la sicurezza è un ricordo lontano (un collega nella sua magione ha trovato un buco e un tubo del gas scoperto, cucina solo a finestre aperte) per un minimo di 2500 euro (e devi accendere un cero a tutti i tuoi santi se trovi un mecenate che si ferma a questi prezzi) per 60-80 metri quadri in cui arrivano a dormire da un minimo di 6 persone a un massimo di… No, non volete saperlo. Diciamo solo che alcuni colleghi si sono sposati più per osmosi che per amore. Non vi dico neanche che un articolo pagato onestamente, si aggira sui 40 euro lordi. Qualcuno chissà può arrivare a 80, 100, 150 ma se scrive per periodici che si vergognano a diventare succhiasangue anche loro. Fate i conti e scoprirete che mesi dopo forse i giornalisti “liberi professionisti” che liberi poi non sono se attanagliati da questi ricatti concentrici e che non hanno condizioni di minima professionalità in cui lavorare, arriveranno al pareggio tra spese e ricavi se avranno dormito sul pavimento e avranno praticato il digiuno intermittente. Alcuni dopo un anno forse guadagneranno qualche decina o centinaia di euro. Molti saranno andati in perdita, perché “a Venezia non puoi mancare”.
Non costa solo l’intervista quindi, ma anche l’intervistatore. E il prezzo lo paghi anche tu che leggi. Perché un’informazione fatta con questa quantità di ostacoli, umiliazioni, impedimenti si abbassa ogni anno di qualità e di libertà. Chi si oppone, spesso viene tagliato fuori. E se voi smettete di leggerlo, in favore di chi impera sui social o di testate che si accontentano di 7 minuti alle condizioni dei publicist che molto spesso li tengono un minuto a dir loro cosa NON possono chiedere, perdete qualcosa. Ecco perché Marco Consoli, che peraltro spesso ancora riesce a scovare interviste eccellenti nonostante tutto, è stato coraggioso. E va sostenuto. Noi abbiamo provato a raccontarvi tutte le regole di questo gioco al massacro, lo sfondo su cui viene versato il sangue di un giornalismo ormai agonizzante.