Il romanzo più bello del 2021 l’ha fatto uno scrittore atipico, uno con zero birignao letterari (anzi dice: “la cosa che mi imbarazzerebbe di più sarebbe pubblicare la lista dei libri che non ho letto: tutti mi prenderebbero per il culo”), uno che nella vita ha fatto tante cose e dice “ogni volta che ho provato a fare qualcosa di nuovo ho fallito miseramente”. Francesco Mazza è un ex writer nella Lambrate dura degli anni ‘90, ex bimbo prodigio in una trasmissione di Michele Santoro, ex autore televisivo per Italia1 e poi, per anni, a “Striscia la notizia”, ex studente di cinema a New York coi risparmi accumulati nella “reclusione” con Antonio Ricci, autore di un cortometraggio che ha vinto premi, ma che nessuno ha notato, autore di documentari che fanno saltare dalla sedia, come quello su Ettore Majorana, andato in onda su Sky.
Ha scritto un’autobiografia che è un inseguimento del padre, chirurgo maxillo facciale, “dentista di Berlusconi” (fu lui ad aggiustare la faccia al Cavaliere, colpito il 13 dicembre 2009 da Massimo Tartaglia, con un modellino del Duomo). Un padre maniaco, esplosivo, braccato da un demone interiore che lo ha portato al suicidio. Il libro si intitola Il veleno nella coda (Laurana), la prossima presentazione è prevista al Salone del libro di Torino, domenica 17 ottobre, alle 16, 45. Ed è un libro nel quale la mancanza di pudore nel descrivere se stesso, il padre, la propria famiglia non ha niente di ostentato, intenzionale, “letterario”. Lo stile non ha niente di manierista, e nemmeno la semplicità pop e trendy fatta di frasi brevi e punteggiatura desolata. Un’autobiografia/romanzo in cui non si capisce dove finisce la finzione e comincia la realtà. Probabilmente è tutto vero. Ma non importa. Importa che sia una storia potente. Lo è.
Francesco Mazza si fa menare. Da quattro anni. Sei volte alla settimana. Da dilettante, vuole sostenere un incontro professionistico di Mma. Lunedì wrestling, martedì brazilian jiu jitsu, mercoledì kickboxing, giovedì brazilian jiu jitsu, venerdì incontro di Mma con lo sparring partner, sabato brazilian jiu jitsu. Soprannome dato dai compagni di allenamento: “supplizio”. Risultati ad oggi: frattura scomposta di tre costole, una commozione cerebrale. «Non ho mai menato, non ho mai partecipato a una rissa - racconta Mazza a Mow -. Perché ho sempre creduto in Sun Tzu. La battaglia la si vince senza combattere. Nel mondo dei writer ci sono risse per il controllo dei posti, i posti per “fare” la metropolitana sono molto pochi, la gente che vuol fare la metropolitana è tanta. Le crew rivali si picchiano per il controllo del territorio. Io però in qualche modo sono sempre riuscito a rimanere fuori».
Incontro Mazza alla palestra “Mma Atletica Boxe”. Seminterrato a Milano sud, tatami nero, punching ball appesi, ring, gabbia. Il suo allenatore, Garcia Amadori (venti anni di esperienza con le arti marziali) commenta: “per far combattere le persone ci vuole tempo, certi allenatori mandano i loro a combattere troppo presto, questo sport non è un gioco, ci si fa male, anche tanto male. Ci vuole un po’ di empatia per decidere, per capire”. La fighter professionista Giada Licata, sguardo da bambina e vari lampi agli angoli degli occhi, è capace di atterrare un maschio di un metro e novanta come se fosse un peluche. «Prendere botte è umiliante - racconta Mazza -, la sconfitta è accompagnata sempre dall'umiliazione, e in pubblico è ancora peggio. Tutti lo vedono, e non c'è un cazzo da fare. L’umiliazione fisica è un dolore ancestrale. Non si supera, non ci riesci a fare i conti».
Perché farsi menare sei volte alla settimana da quattro anni?
L’Mma è una metafora della vita
Spiegami un po’
Sei recintato come un animale in gabbia. Quando combatti sul ring di boxe hai una sensazione di apertura, perché il ring è in alto, ed è aperto. La gabbia ti dà subito l'idea di claustrofobia. Quando inzia il combattimento il giudice la chiude a chiave e tu senti “stlock!” È come la galera.
E il giudice è il secondino
E hai la sensazione che la difficoltà non la puoi schivare, te la devi prendere, non c'è nessuno che ti puo' aiutare e poi c'è la "fase a parete", esclusiva dell'Mma.
Raccontalo ai non addetti alle legnate
Nel pugilato non puoi andare spalle al muro, vai alle corde ma a quel punto l'arbitro fa ricominciare l'azione. L'Mma è l'unico sport in cui tu sei spalle al muro, con uno che ti spinge la giugulare contro la gabbia che è di ferro, e lì sei completamente solo, la sensazione che hai è che sei completamente solo, e dipende esclusivamente da te.
E che effetto fa?
La prima cosa che senti dentro di te è la voglia di mollare, il 99 per cento di te stesso ti grida sempre: “molla! Smetti!”. Prima di iniziare il combattimento non penso mai al'inizio: vado, vinco, sono il più forte, penso: “questo mi spacca la faccia”.
Poi?
Poi rimane, sempre, l'uno per cento, che qualsiasi cosa gli fai non molla. In definitiva, qui alleni il tuo uno per cento. A questo serve l'Mma, alleni il tuo uno per cento che è quella forza, mistica, che ti serve ad andare avanti.
Quindi l’Mma serve a forgiare l’uno per cento di noi che non si arrende mai?
Se non avessi l'Mma a quest'ora sarei o pieno di pillole, o in ospedale, o morto, o a fare l'autore televisivo, che è come essere morti.
E come sei arrivato all’idea di combattere?
L’idea mi è venuta nel 2018, quando ero completamente disperato, il mio unico lavoro era prendere 80 euro lordi da un quotidiano quando il caporedattore mi diceva “fammi un pezzo”.
Da quanto segui l’Mma?
Da quando Brock Lesnar, che è un ex wrestler WWE -sai, Hulk Hogan e quella roba lì- nel 2008 andò a combattere nell'Mma. E a quel punto l’Mma era il sogno di ogni fan di wrestling. Perché vedevi che questo menava per davvero.
Il wrestling è teatro?
Il wrestling è predeterminato, sai già chi vince e chi perde, cosa che anche quella non è così lontana dalla vita. Soprattutto dalla politica.
La politica è teatro?
Guarda le dinamiche. tutti hanno interesse a dire he in realtà è la questione più importante, più urgente, è quella ideologica, mentre se uno va a tirare i bulloni in piazza non è tanto per il fascismo, e nemmeno per il vaccino
E perché va in piazza a tirare bulloni, allora?
Perché non guadagna un cazzo. Punto primo. Punto secondo: perché non ha la droga.
Qual è la droga che manca?
La mia generazione aveva la droga della scalata sociale. Tu vivevi con quest'oppio mentale: a un certo punto il sistema ti avrebbe dato soldi e successo, se continuavi a fare il tuo dovere (o se facevi un colpo). Ancora dieci anni fa, parlo di prima del 2008, se facevi l'autore televisivo potevi pensare: “scrivo un format nuovo e con quello faccio il mio programma, e divento ricco e mi stabilizzo”. Ora nessuno scrive i format, perché tanto non ci sono i soldi per produrre le cose. È così in tutta la società. L'oppio è finito. Il massimo che puoi pensare è: “rimango quello che sono”. Non puoi più preoccuparti di perdere il lavoro, perché tanto il lavoro è una merda.
Siamo socialmente in un incubo?
L'incubo è “muore mia nonna, non prende più la pensione e sono fottuto”. Da questo punto di vista il referendum sull'eutanasia va un attimo considerato. Taglierebbe una fonte di reddito importante.
In cosa può sperare chi ha vent’anni?
L'unica cosa di sperare è andartene fuori dall'Italia, che non era quello che speravamo noi. Mio padre mi gridava: “devi andartene da questo porco paese!”. Ma era un innovatore, non lo capivo, negli anni 90 non c'era questa idea del “cervello in fuga”, degli expat.
La fuga come ultimo oppio generazione possibile, quindi.
Quando stavo a New York Avevo elaborato la teoria dell'esodo verso ovest.
Cioè?
Conoscevo un sacco di italiani che venivano dalla periferia, dal Sud, dal Veneto, dall'alto Piemonte eccetera. Prima si trasferiscono nel grosso centro urbano italiano, Milano o Roma, poi a Berlino o Londra, poi arrivano a New York cercando di fare i mezzi attori, i mezzi scrittori, i mezzi registi. Fallivano a New York, a quel punto andavano tutti a Los Angeles. C'era sempre la scusa: “no ma in provincia che cazzo fai”, “no ma in Italia che cazzo fai”, “no ma in Europa che cazzo fai”, “no ma New York che cazzo fai”. “Vado a Los Angeles che è la capitale dello spettacolo”. E dopo si buttavano nel Pacifico, e venivano mangiati dalle balene perché il mondo finisce, a meno che non ti reinventi pescatore di balene sulla costa giapponese....
O in Cina?
Lì c'è il problema della lingua, il problema del sistema di visti, che è ancora più stringente di quello Usa. E poi c'è il problema più importante.
Quale?
Che trasferirsi in Cina non è figo. Perché sempre a livello generazionale noi c'abbiamo quella cosa lì: l'etica è sempre legata all'estetica, che è una delle grosse sciagure del mondo.
Perché?
Perché a volte fare il bene non è bello. Ci sono un sacco di situazioni in cui la scelta giusta è la scelta più sporca. Invece vale la regola: primo, far bella figura: se entro dal Bolognese a Roma nessuno deve girarsi e aver qualcosa da dire.
Non ti ha spaventato scrivere un libro in cui metteva a nudo disgrazie, debolezze, manie, personali?
Sono convinto che l'unico modo per entrare in comunicazione con le persone sia la vulnerabilità. Le persone si riconoscono quando capiscono di avere una debolezza in comune.
Ma è di gran moda. Le influencer fanno vedere i brufoli, le esfoliazioni, i rotoli di ciccia.
Quando vedrò gli anziani che postano piaghe da decubito su Instagram ti crederò. Fino ad adesso anche le debolezze si mostrano in modo “estetico” Faccio un esempio: va molto di moda la solidarietà alle trans. Ma non c'è nessuno che dica: ho avuto una storia con una trans, sono andato a letto con una trans. Se fai una marcia per i diritti delle trans ci vanno tutti, come è giusto che sia, ma se chiedi quanti di voi hanno avuto rapporti sessuali con transessuali (e sono tantissimi), nessuno ti dirà mai sì. Nessuno.
Hai mai avuto rapporti sessuali con una trans?
Ma certo! A New York è normale. Vai un locale e stai lì a capire la differenza? Come fai? Ma nessuno lo ammette, perché l'uomo italiano deve essere uno schiantafighe. Allora la vulnerabilità vera non è l’influencer coi brufoli. La vulnerabilità sarebbe stato Morisi che dice: “io sono David Bowie”.
E la coerenza minima? Se fai parte di un partito che sostiene certe cose dovresti, per coerenza, appartenere a quel mondo, anche dal punto di vista della condotta personale.
No. Un gay dovrebbe essere libero di essere di destra e di essere contro famiglia, matrimonio, le adozioni. Uno che lavora che Salvini dovrebbe essere libero di dire che è gay, ma è a favore della famiglia. Ma non è così, quindi torniamo al wrestling. La politica, come il wrestling, è predeterminata.
C’entrano anche i social in questa deriva?
Il funzionamento della democrazia è stato hackerato dai social. Hai presente la teoria dei due sistemi di pensiero di Daniel Kahneman? Il sistema uno è quello emotivo, si attiva immediatamente, è quello che ti fa venire l'acquolina in bocca quando vedi da mangiare, il sistema due è quello che ti fa pensare che meglio che ti trattieni, o ingrassi. I social hanno spostato dentro al dominio del sistema uno, quello delle emozioni un tema come la politica che prima era appannaggio del sistema due. Adesso un referendum lo puoi imbastire online. E siamo tutti contenti perché magari faremo un referendum sulla cannabis, che sono temi che dimostrano il progresso della società. E se domani Salvini o Meloni propongono un referendum sulla pena di morte, la gente cosa fa? Magari sull'onda di un grosso caso di cronaca come quelo dei fratelli Bianchi, o ancora peggio, se dovesse essere un immigrato che compie un crimine, secondo te non riescono a trovare 500 mila firme per la pena di morte? Secondo me sì. Perché facendo leva sullo shock emotivo di un ipotetico caso di cronaca, omicidio, stupro, ecc, si può. E a quel punto torniamo indietro di 70 anni, e dobbiamo di nuovo fare una battaglia contro la pena di morte.
È il meccanismo social che è, in sè, populista, quindi…
Il meccanismo crea dei populisti ogni volta diversi. In Italia abbiamo avuto l'esperienza del populismo dei Cinque Stelle, in Spagna hanno avuto l'esperienza del populismo di sinistra, Ciudadanos. Ma il fatto è che la rete ha dato modo a quelli che una volta si chiamavano “qualunquisti” di avere una posizione politica. In questo caso vengono corteggiati da Salvini e da Meloni, ma un domani potrebbero essere corteggiati da altri
Prima di questo romanzo avevi mai scritto?
Malissimo. Avevo scritto due romanzi quando avevo vent'anni, facevano cagare infatti sono stati giustamente rifiutati. Poesie, anche quelle malissimo. Non ho talento per la scrittura, come non ho talento per combattere. Il fatto è che il talento è una cazzata, non esiste.
Cosa esiste?
La volontà.
Ti ritieni un (auto)biografo o uno scrittore? Ritieni di poter raccontare anche storie diverse dalla tua?
Sì. Ho fatto i documentari, quello su Majorana, o quello sui graffiti. Quelle sono storie. Scritte per il cinema o la tv. Ho fatto un cortometraggio, si chiama Broken Eggs, su una donna a cui il marito dice di aver contratto l'HIV andando a prostitute. Allora lei, per amore del marito va apposta a farsi infettare di HIV. Ci sono quelli che quando il partner subisce una cosa del genere vanno a prendere "the gift", c'è un film a riguardo, c’è un movimento di queste persone. Lo dice al marito, “amore, ti amo così tanto che voglio condividere con te questa cosa”. E a quel punto il marito gli dice che lui non ha l'HIV. Glie l'aveva detto di modo che lei lo lasciasse, non aveva il coraggio di dire che lui non l'amava più. Storia malata.
Cosa c’è di interessante, dal punto di vista della storia, nel tuo rapporto con tuo padre?
Mio padre per me è il più grande mistero dell'universo. Volevo raccontare la storia di me stesso nella misura in cui mi interessava raccontare di mio padre. Che è il personaggio più affascinante. Mio padre è stato come una sciagura naturale. Incontenibile. Inspiegabile.