Se vi considerate fini conoscitori della letteratura, moderna e soprattutto contemporanea, e il nome di Cosimo Argentina non vi dice niente di niente, le questioni sono due: o Argentina vi sta sulle palle per la sua bravura e vi brucia il fegato ammetterlo, o siete dei finti lettori, di quelli che si gasano e si sentono come quei personaggi intellettuali di qualche film di Woody Allen solo perché avete commentato nel vostro locale club del libro l’ultimo Premio Strega, ah loro sì che sono scrittori, gli danno pure i premi! Cosimo Argentina, nato a Taranto nel 1963, è probabilmente uno degli scrittori più puri e talentuosi che abbiano pubblicato romanzi in Italia negli ultimi vent’anni. Vive nell’hinterland di Milano, dove insegna Diritto ed Economia come professore ordinario in un liceo statale. Ha pubblicato diciassette romanzi. Inutile che vi citi i suoi titoli migliori, tanto non li conoscereste. Perché siete quella tipologia di individui che ad un viaggio on the road sull’Isola di Skye preferisce sbocciare Magnum di Crystal a Mykonos, perché piuttosto che scoprire le conche sperdute della litoranea tarantina vi andate a infognare sul Tirreno o in Salento ché “là è tutto attrezzato e stiamo comodi”.
Il diciassettesimo libro di Cosimo Argentina, edito da Minimum Fax, si chiama “Dall’Inferno” e sulla copertina leggerete anche il nome di un altro scrittore, Orso Tosco. Sono due racconti, due romanzi brevi, due reportage dalle viscere di due città problematiche e affascinanti: Genova per Orso Tosco, e chiaramente Taranto per Cosimo Argentina. Il titolo della parte di Cosimo è UME’, abbreviazione dialettale di Taranto che significa “il migliore”. Si usa per accentuare un insulto o un complimento, ma vista la naturale predisposizione della gente dei due mari al ludibrio e alla beffa, è soprattutto utile come superlativo assoluto dei bastardi.
UME’ è la storia allucinata di un povero cristo senza nome che deve esordire come operaio all’Ilva per la prima volta nella sua vita. E’ la sua prima notte di lavoro, e deve fare l’affiancamento con un caporeparto specifico. Purtroppo, essendo l’Ilva una struttura che di superficie è il doppio della città stessa di Taranto, non sarà per niente facile trovare la persona che dovrà seguire l’affiancamento di UME’ (come lo chiamano un po’ tutti i personaggi che incontrerà). Questo escamotage narrativo condurrà il lettore a respirare, succhiare, sentire com’è la notte dell’acciaieria più grande, più incasinata, più tragica d’Europa. Una vera e propria calata nelle viscere dell’Ilva, che come ogni grande mostro che si rispetti, ha le trippe e le budella intasate da quella che è, forse, l’ultima generazione di vera classe operaia che abbiamo in Italia.
Argentina aveva già scritto dell’Ilva in uno dei suoi romanzi più letali, Vicolo dell’Acciaio, uscito per Fandango nel lontano 2011. Il miglior romanzo in assoluto sull’acciaieria di Taranto, con una trama e dei protagonisti indelebili. Come tutte le cose belle, Vicolo dell’Acciaio non ha mai avuto una ristampa e il libro è - ad oggi introvabile. Ma non preoccupatevi: le centoventi pagine di UME’ vi daranno una quadra dolorosa e netta, come un taglio di un coltello da cucina professionale, di cos’è l’Ilva e di cosa voglia dire lavorarci. UME’ è una storia senza ipocrisie, senza pulizia, senza perbenismi. Fingere che il male e il marcio non esistano serve soltanto a rinfocolare l’Orrore. Cosimo Argentina l’Orrore lo addomestica, ne viene travolto quando scrive probabilmente, certe volte può sembrare che esageri, ma com’è che si dice? E’ uno sporco lavoro, ma qualcuno dovrà pur farlo.
Ci sarebbero da dire tante cose, su Cosimo Argentina. È l’emblema dello scrittore tosto che non fa grandi numeri; è quello scrittore che difende gli ultimi, gli insicuri, gli indifesi; è il miglior scrittore mai nato a Taranto; è un ex calciatore che ha fatto i provini con la Roma; è un ultrà che ha rotto tante teste nella foga campanilistica; è un isolato vecchio pazzo… ma non servirebbe a niente. Purtroppo il gossip nella letteratura può soltanto fare da corollario. Se Bukowski non avesse scritto così maledettamente bene, a nessuno sarebbe fregato niente della sua vita biografica. Quindi, se volete arricchirvi culturalmente, conoscere meglio una città che viene nominata dai media di tutt’Italia da dieci anni a questa parte, comprate UME’, leggete i libri di Argentina. Se volete piangere per storie d’amore strazianti e straziate, per esistenze finite nella pattumiera, per personaggi a cui fanno del male senza motivazione, leggete Argentina. Se il vostro obiettivo con la lettura è crescere, comprendere, affrontare quello che ci portiamo dentro, leggete Argentina.
Credo che Letteratura, Fotografia, Cinema, Pittura, la Creatività in generale, sia vera e poderosa quando ti lascia dentro qualcosa che ti porti per sempre. Un segno, un ricordo, una canzone di una colonna sonora che messa in quella sequenza di fotogrammi ti fa piangere, una frase di un personaggio, un gesto, un paio di occhi dipinti in cui c’è il vuoto del pianeta, una luce particolare in uno scatto che ti fa commuovere e ti rasserena. Questo io lo ritrovo nei libri di Argentina, anche se fanno male. Anche se fanno soffrire.
Cosimo Argentina, uno dei diamanti puri della narrativa italiana, è praticamente sconosciuto al grande pubblico. Non è ospite nei talk show, non finisce su La Zanzara né su DagoSpia, non è giurato nelle rassegne culturali nazionali, non gradisce che gli si facciano domande di tuttologia acuta. Cosimo Argentina non ama il trash talking, evita di infilarsi in dibattiti social da compulsione onanistica. Ha una sola cosa da offrire: la sua scrittura.
In Dall’Inferno con Umè è la storia di un neo-operaio che per completare l’iter di assunzione deve effettuare un affiancamento notturno, peccato che quando si presenta ai tornelli d’ingresso sia appena successo un drammatico incidente sul lavoro, e la fabbrica è tutta in fermentazione vulcanica. È uno scritto che è una denuncia, un rantolo di rabbia verso il potere che pur di massimizzare il profitto non esita a inquinare, a recidere le vite degli operai con sistemi di sicurezza inesistenti. Lo intervistiamo perché in queste cose, almeno in queste, definiamole creative, ci vorrebbe un po’ di meritocrazia. Chi davvero sa scrivere bene dovrebbe ricevere più consenso. Argentina meriterebbe un plebiscito.
Hai 58 anni. Hai pubblicato il tuo 17esimo libro, Dall’Inferno. Sei considerato da diversi critici letterari uno degli scrittori più talentuosi d’Italia. Eppure non sei nelle recensioni dei quotidiani culturali, né nei feed instagram delle book influencer. Sei un underdog, uno scrittore di nicchia della letteratura italiana contemporanea. Come ti fa sentire questo dualismo?
Mah! tutto questo suscita due sentimenti contrastanti. Da una parte so che i miei lettori sono una cosca che recide il capoverso, gente che non puoi prendere per il culo, lettori che in un modo magico sono entrati nei gangli del mio pensiero e ci restano dagli anni ’90. D’altra parte però sarei un ipocrita se non ammettessi che mi spiace non arrivare a essere letto da quanta più gente è possibile. Perché se uno pubblica sa di essere solo a metà dell’opera.
Questo non riuscire a sfondare, in termini di numeri, ti galvanizza o ti affossa?
Sono impermeabile, ma consapevole che se i numeri aumentassero non avrei rubato nulla a nessuno. Riuscire a sventagliare, chessò, 300mila copie rimanendo fedele a me stesso sarebbe una soddisfazione, un pricio di un valore inestimabile. Inoltre potrei cambiare la macchina visto che la mia Dacia Sandero del 2010 ha ben 250mila chilometri.
Cosa pensi del Premio Strega, e dei premi letterari in generale?
So che non è tutt’oro ciò che luccica. Ci sono dinamiche. Ci sono fratellanze, accordi. Devi essere spinto. Devi crearti una strada preventivamente. La casa editrice deve investire tempo e denaro. Ci sono un botto di variabili, sicché quando il risultato arriva c’è da chiedersi se si sta premiando il valore letterario di un’opera o una strategia vincente.
Come si può riportare la Letteratura ad essere un fenomeno più “pop” e meno da sfigati?
Secondo me lo si può fare solo evitando di prendere in giro i lettori. Se gli propini roba mediocre spacciandola per capolavori uno via l’altro la gente si stancherà e preferirà guardare le ragazze in costume o i maschi a torso nudo su instagram. E si dovrebbe pubblicare con più oculatezza. E io darei meno spazio agli agenti letterari che hanno troppo in mano il mercato. Leggere un buon romanzo non è da sfigati, ma vaglielo a far capire ai miei figli o a un ragazzo di vent’anni che ha come unico dio l’ultimo influencer apparso sul web.
Pensi che sia più lo stile narrativo, tra dialetto e ambientazioni, o le storie che racconti, ostili, senza compromessi, cattive a volte, che ti abbiano precluso il successo?
No, nulla di tutto questo. C’è una base imponderabile, come diceva Fernanda Pivano, che decreta il successo di un’opera. E poi c’è la tendenza del momento. Io forse sono stato spesso in controtendenza, ma questo non mi ha fatto certo recedere dalla via intrapresa. Scrivere, almeno per me, è un’esperienza che deve afferrarmi per la camicia bagnata e trascinarmi a riva. Su una battigia qualunque. Poi arrivano gli altri. Se non mi afferra sono fottuto e quindi c’è un che di egoistico nelle storie che scrivo. Forse, dico forse, questo non agevola lo sdoganamento. Ma che ci vuoi fare? Per fortuna non siamo tutti uguali.
Come può un romanzo essere valido se si fa condizionare dal perbenismo, dal moralismo?
Ahia! Questa domanda è di difficile analisi e la risposta è ancor più difficile. Gli scrittori degli anni ’60, ’70 erano più liberi e coraggiosi. Arrivo a dire che Joyce e Dostoevskij erano più liberi e coraggiosi. Gli scrittori erano contro e spesso pagavano di tasca propria. Oggi scrivere una storia diventa uno slalom tra prescrizioni, niet, trappole legate a termini “sconvenienti”, rigidità intellettuale, moralismo ipocrita, accanimento contro chi non si allinea, gogna mediatica per un benché minimo schizzo di piscio fuori orinale. Quindi la risposta è: boh! Se voli basso viene fuori un qualcosa di omologato. Se voli alto probabile che ti abbattano o non ti permettano di arrivare ai lettori. È di difficile soluzione, questa questione.
UME’ è un romanzo dal forte valore sociale, oltre che dallo stile completamente pazzo, allucinogeno. Sembra un casse-pipe di Céline ambientato all’Ilva. Cosa pensi che sia rimasto della classe operaia, oggi?
Lo vedo anche come un’opera espressionista alla Cuore di tenebra di Conrad. Classe operaia? Scomparsa. Almeno come fronte di lotta. Ora i lavoratori sono stati divisi, ammansiti, non sono più radicalizzati. Direi truffati da fondi di bicchiere etichettati come ammortizzatori sociali. Oggi il lavoratore è diventato un consumatore che sorride fin tanto che ha in mano uno smartphone, il numero di una puttana che lo soddisfa in chat e una retribuzione che gli permette di guardarsi dietro e vedere in tivù la fila davanti alla Caritas e ritenersi privilegiato nonostante i debiti. La classe operaia reggeva quando aveva un’idea di lotta. Ora le idee non le vedo. Ora ci sono rivendicazioni che passano dagli avvocati. I sindacati hanno deluso tutti. Si sogna quota cento e amen. Una burla senza fine.
La violenza ti è stata spesso contestata nei tuoi romanzi. Non credi che chi si preoccupa della violenza presente in film, libri, musica eccetera dovrebbe guardarsi intorno, e non ti parlo di cronaca, ma di stile di vita turbocapitalista improntato al successo a scapito di tutto e tutti?
Mio padre era violento con me e remissivo con gli altri e io, da ragazzo e fino a circa i vent’anni, picchiavo gli altri. Chiudevo il cerchio. Ero violento. Poi ho abbandonato questo modus operandi e sono diventato pacifico, fin troppo. Il marchio che mi porto dietro è una rabbia che controllo solo grazie alla scrittura. Ho ricevuto secchiate di merda e le sconto sulle pagine. Non sempre, ma è successo. Inoltre fotografo una realtà o una verosimile realtà. Quando ho pubblicato L’Umano Sistema Fognario mi arrivavano ritagli di giornale di gente che aveva tenuto in casa il cadavere della madre per riscuotere la pensione. Quanto alla violenza di oggi, sì, ce n’è tanta. In Lombardia i ragazzi di 16 anni hanno moto da sogno e a 18 guidano l’auto di papà, auto di grossa cilindrata anche se non potrebbero. E monta l’odio. Le differenze marcate, sfacciate, generano odio. Io sono contro questo odio e questo tipo di frustrazione e mio figlio 18enne va in giro in bicicletta. Ma è un dato di fatto. Devi avere tutto, calpestare tutto e tutti, essere il più ricco, il migliore, il facoltoso di domani. Libri, fumetti, musica e film a quel punto sono una pantomima risibile. I contenuti familiari invece sono la punta di questo iceberg.
Cosa pensi che accadrà alla città, e all’Ilva, nel futuro? Lo scenario più realistico possibile.
Dicono che siamo alla frutta, in quanto ad acciaio. Dicono che la concorrenza è spietata a livello internazionale. Dicono anche che stanno tenendo in vita un cadavere industriale per ricevere finanziamenti e fondi europei. Io proprio non lo so. Credo però che sia possibile uno sviluppo della città anche senza il mostro siderurgico. È accaduto altrove e quindi non vedo perché non potrebbe accadere a Taranto. Sarà dura, ma possibile.
Cosa ti servirebbe per ritenerti soddisfatto della tua carriera da scrittore?
Il nobel per la letteratura. Seriamente, mi piacerebbe farmi conoscere all’estero. Vedere come reagiscono i lettori tedeschi, inglesi, francesi, chessò, norvegesi davanti alle mie storie. Capire se ciò che ho scritto ha il crisma dell’universalità.
Cosa scriveresti come ultima dedica al mondo intero, prima di morire?
Parafrasando la famosa battuta di Patrick McMurphy (Jack Nicholson) nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo, quando cerca di sradicare un enorme basamento di marmo per provare a raggiungere la libertà, direi che la frase più adatta sarebbe… Almeno ci ho provato, vacca troia, almeno ci ho provato…