C’è una follia che hai fatto nella vita?
"Quella di aver dedicato tutta la mia vita alla poesia"
Per anni abbiamo creduto che realizzare i nostri sogni fosse legato all’andare in città, più grandi erano e più le nostre aspettative sarebbero state soddisfatte. Eppure, già dagli anni 60 alcuni intellettuali come Luciano Bianciardi avevano iniziato a metterci in guardia sull’alienazione urbana, così come, in seguito, Pier Paolo Pasolini nei 70, sul rischio dell’omologazione come nuovo fascismo. Oggi che stiamo uscendo a fatica da un'inaspettata e straordinaria emergenza dovuta a un virus – la cui diffusione è indissolubilmente legata all’affollamento – abbiamo compreso che la scienza e la tecnica possono aiutarci, ma non risolvono la nostra esistenza. Eppure, anche negli anni 20 del millennio in corso, possiamo contare su chi, meglio di chiunque altro, indica una via diversa e più sostenibile e non è né un virologo, né un epidemiologo, ma un poeta: Franco Arminio.
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Dalla sua Bisaccia, comune in provincia di Avellino che non arriva ai 4mila abitanti, si è inventato un nuovo modo di intendere lo spazio che ci circonda. O semplicemente, ci ricorda quello che, acciecati dalle luci del consumismo, avevamo perso di vista. Eppure, oltre all’attività poetica di grande rilievo (sostenuta dalle vendite) è uno degli artisti più seguiti sui social, si autodefinisce “paesologo” e cioè uno studioso di quei particolari organismi che sono i paesi, con la “p” minuscola”, è documentarista e promotore di battaglie civili e collabora con il Corriere della sera, Il Manifesto, Il Fatto Quotidiano ed è animatore del blog “Comunità Provvisorie”. Insomma, senza essersi trasferito forzosamente a Milano o a Roma, ha raggiunto risultati notevolissimi.
Secondo alcuni critici letterari è un neorealista alla Pasolini, secondo altri un meridionalista alla Carlo Levi. Roberto Saviano lo ha definito «uno dei poeti più importanti di questo paese». Lo abbiamo intervistato – in concomitanza con l’uscita del nuovo libro La cura dello sguardo, scoprendo che, in fondo in fondo, il suo unico obiettivo in qualsiasi attività che lo vede impegnato è una solo: “Riabilitare gli uomini a essere uomini”.
Mi è capitato spesso di aprire un libro di poesie e di aver percepito un sollievo. Per cui ha anche una funzione terapeutica
La poesia sembrava in via di estinzione, poi anche grazie ai social è tornata di grande interesse. Cos’è che la salva, nonostante le evoluzioni tecnologiche?
Intanto la poesia ha una radice emotiva ed è breve, quindi funziona sulla rete principalmente per queste due ragioni. Poi possiamo discutere, perché ci sono tanti livelli, non c’è solo un solo modo di fare poesia. Può essere popolare, letteraria, civile. A me va benissimo che esitano vari modi di portare la parola poetica. Credo che questo fenomeno sia bello e spero che continui a diffondersi. In più, nel tempo che viviamo la poesia ha un suo elemento di consolazione. In un mondo afflitto, leggere un libro di poesia può essere utile. Mi è capitato spesso di aprire un libro di poesie e di aver percepito un sollievo. Per cui ha anche una funzione terapeutica.
Eppure, la critica in molti casi fa ancora fatica ad accettare certi poeti nati principalmente grazie alla rete. Penso a Guido Catalano oppure Gio Evan. Come mai?
La critica è scavalcata dai social, anche se i miei libri sono stati spesso ben accolti ed esistono ancora ottimi critici, come Emanuele Trevi. Però oggi un poeta, bravo o meno bravo, mette la sua roba là sopra e i lettori la prendono e la fanno girare. Decidono loro se quel testo gli interessa. Non c’è neanche più un luogo dove vengono battezzati i poeti. Un tempo esisteva la rivista Nuovi argomenti, con Gianfranco Contini che era un sacerdote della critica e se diceva “dopo Montale c’è quest’altro” tutti lo stavano a sentire. Non funziona più così. Dobbiamo capire, invece, come elevare il gusto delle persone alla buona poesia. C’è una questione aperta di alfabetizzazione in Italia. Le persone perdono contatto con la lingua e quindi sfornano poesie molto brutte. Bisogna lavorare nelle scuole, perché la manutenzione della lingua è importante. Se una società ha una lingua scadente è una società scadente nel suo complesso. Gli italiani, infatti, parlano male perché leggono poco e male.
Ma ti sentiresti di consigliare a un giovane di proseguire sulla strada della poesia?
La poesia non è quasi mai un lavoro. È molto difficile camparci. Uno scrive come piscia. Il vero poeta è abitato dalla necessità. È una ossessione, ti prende e non ti molla. Quindi al giovane non va consigliato. Se ha questa malattia va avanti perché ha dentro quel demone di scrivere. Io ho scritto poesie per trent’anni senza grandi riconoscimenti, perché non riuscivo a fare diversamente. Comunque, leggere è fondamentale. Molti poeti mi mandano i loro scritti e si vede subito che leggono poco. Più che giudicarli, gli consiglio di leggere. Non si diventa poeti senza leggere i grandi poeti. E poi devi incontrare gli altri. Se scrivi e basta è una attività onanistica.
Qual è la prima poesia che hai scritto?
Ricordo quando. Era un pomeriggio di gennaio, su una agenda di mio padre, con una penna rossa. Un testo adolescenziale, un lamento sulla solitudine. Ma da quel giorno ho continuato, prendendo una strada che dura dai 16 agli attuali 60 anni, nella quale scrivo tutti i giorni. Da allora ha accompagnato tutta la mia vita.
In questi tempi di Coronavirus abbiamo capito che l’amore si può definire per decreto, come ha fatto il governo con gli “affetti stabili”. Che ne pensi, tu che vivi di parole?
Io preferisco chiamarle “intimità provvisorie”. Trovo assurdo che se uno sta in Puglia e ha una fidanzata in Campania, non possa andare a trovarla. Al limite possono controllarmi, però questa cosa è un po’ discutibile. Così come non poter andare a funghi nel bosco. Ci sono cose che fanno bene senza mettere in pericolo nessuno, averle vietate è stato un errore. Sugli affetti, poi, è diventata una cosa complicata. Oppure sulla vita sessuale, che è importante per le persone. Tenerle senza per due mesi è stato piuttosto grave. Quando c’era l’Aids il governo non diceva “non scopate”. Qui la situazione è più complessa, però va lasciata più libertà. Non di assembrarsi, ma di fare sesso sì. Puoi multare i gruppi, ma che te ne frega a te se vado a casa della mia fidanzata? Con questo approccio, invece, quando si dirà basta? Se tra due anni qualcuno dirà che in una zona c’è ancora un caso, via di nuovo tutti chiusi? Ci vuole più buonsenso e sugli affetti devono decidere le persone. Se ti ammali ti curi. Altrimenti potrebbero anche dirci: “Non dovete guidare a più di 80 allora perché vi ammazzate e i soldi li dobbiamo usare per curarvi”. O come dire: “Non andate a Milano perché l’aria è inquinata”. A queste condizioni potrebbero scioperare gli insegnanti del sud trasferiti al nord. Mi stupisco che gli italiani abbiano accettato tutto, un po’ superficialmente.
Nell’intervista “impossibile” al Coronavirus, a un certo punto ti risponde così: “Dovete pensare che ci sono due cose, la materia e il tempo. La materia attraversa il tempo e il tempo attraversa la materia. Da qui nasce tutto, una lacrima, un bacio, un colpo di tosse”. Cosa ci lascerà questa esperienza?
Come tutti i discorsi già affrontati in questi anni, la necessità di cambiare, cioè che dovremo calmarci, che le megalopoli sono più pericolose rispetto alle campagne e ai paesi. Non si può negare che il virus si sia diffuso maggiormente in città come Wuhan, New York o Milano rispetto a Bisaccia. Io sono per un capitalismo plurale e questa situazione ci ha fatto accorgere anche di quante cose in questi mesi stiamo usando e non ci mancano. Non ci è mancato un aperitivo, semmai un abbraccio. C’è un superfluo sul quale bisogna ripensare. Ma temo che non sarà un percorso rapido. Prima di tutto sarà necessario tornare alla normalità, ma costruendo già da adesso una nuova economia, che sia un elemento importante ma non l’unica religione. Ci siamo inventati questa cosa di produrre e consumare, però non ci rendeva felici neanche prima del virus.
Se Franco Arminio diventasse ministro della cultura, quali provvedimenti porterebbe avanti?
Darei tanto spazio alla dimensione rappresentativa. In ogni paese e città ci vorrebbe un luogo in cui le persone possano raccontare i loro dolori, i loro racconti, le loro storie, confrontarsi e in cui la dimensione spirituale sia più coltivata. L’uomo deperisce se non è a contatto con il sacro, con l’amore e la bellezza. Come nel mondo greco, dovrebbe essere tutto improntato alla bellezza. Il grande equivoco è l’aver trasformato un animale religioso, sacro, che ha dio dentro, in uno strumento della tecnica, un supporto del telefonino. Una mutazione antropologica mancata. Non ho niente contro la tecnica, però mi ribello alla disumanizzazione radicale, in cui diventiamo una periferia della tecnica. Il ministro della cultura dovrebbe essere il più importante e il 90% del patrimonio dovrebbe essere orientato a questo. Le persone dovrebbero essere al primo posto, senza dimenticare la loro salute, sia fisica che piscologica. Dobbiamo riabilitare gli uomini a essere uomini. I concerti, le presentazioni di libri, i film al cinema sono importanti, ma sono sempre all’interno di una visione consumistica della cultura, invece dobbiamo ritrovare una visione sacra.
È un programma molto suggestivo, solo che gli elettori sono più sensibili ad argomenti economici.
L’importante non è fare il ministro, ma portare avanti il proprio canto. Non bisogna inseguire gli esseri umani e convincerli per forza. Se a qualcun altro il mio canto piace, cantiamo insieme e da uno si diventa due e poi quattro o cinque e così via e le cose possono cambiare. Non voglio che tutti diventino “arminiani”, sono per un mondo in cui ci siano molti modi di abitarlo. Con rispetto e tolleranza reciproca. Adesso, se non sei su quell’onda ti fanno fuori. Almeno fino a pochi mesi fa.
Eppure, tu stesso sei un buon esempio di poeta e scrittore che da Bisaccia, non certo un grosso centro, ha ottenuto risultati editoriali e collabora con importanti quotidiani e riviste.
Sto cercando di costruire una sorta di modello. Vivo nella casa in cui sono nato da 60 anni, parlo dei paesi che conosco profondamente, però non tutti devono vivere come me, ma dimostro che si può avere una grande vita in un piccolo paese. Non credo di essere una persona gretta, provinciale e chiusa, che non ha sguardo sul mondo, nonostante venga da un luogo poco abitato. Dall’Appennino, anzi, posso avere una visione originale sulle cose che mi viene dal luogo che mi circonda.
Al riguardo degli Appennini, hai scritto un libro a quattro mani con Giovanni Lindo Ferretti: “L’Italia profonda”. Lui è molto cattolico, mentre qual è il tuo rapporto con la religione?
Giovanni lo etichettano come uno di destra, invece lo trovo un uomo prezioso. Su tante cose non siamo d’accordo, però è bello che a questo mondo ci sia anche Giovanni Lindo Ferretti. Io sono molto religioso, ma non vicino al clero. Mi piace chi parla di dio, amo la tensione al sacro e al mistero, vedo però tutti i limiti delle religioni. Come quella cattolica, dove neppure in questa emergenza il Papa ha messo a disposizione 200 milioni di euro o le case dei cardinali per chi aveva bisogno, tanto per dire qualcosa di qualunquista. Ma non c’è più neanche questo slancio. È rimasta una istituzione che cerca di sopravvivere. Gli stessi cattolici non vivono secondo le disposizioni che provengono da parte dei vertici cattolici. C’è una sorta di ateismo di massa, con la Chiesa che mantiene un potere ma non influenza, se non minimamente, le coscienze. Il vero dio oggi è nella produzione di merci. Ferretti fa bene a credere se lo fa stare bene, io non ho quel tipo di religiosità. La fede è una cosa seria, sarebbe una pagliacciata se me la inventassi.
Sei Direttore artistico del Festival della paesologia “La Luna e i Calanchi” di Aliano, il paese in cui venne esiliato Carlo Levi. Che cosa ci può insegnare ancora oggi la tua figura?
Levi è una figura enorme della cultura italiana, purtroppo le sue posizioni non sono state ascoltate. Le culture socialista e libertaria sono state sconfitte. Lui è un gigante, andrebbe studiato nelle scuole, citato, letto. Ma in tv non viene mai nominato. E poi è uno scrittore di grandissimo livello, oltre al pensiero che ha espresso. Una figura, purtroppo, incredibilmente emarginata.
Quale giovane artista ti senti di consigliare?
Oggi è difficile, ce ne sono tantissimi e mi sembrerebbe di fare un torto a quelli che non citerei. Posso solamente sostenere di dare fiducia ai giovani. È importante avere uno sguardo verso gli emergenti. Come ad Aliano, dove invitiamo giovani artisti che poi si rivelano bravissimi. La poesia non è finita con Montale e non finirà con me, come in tutte le altre arti il ’900 non ha detto tutto. Siamo in un secolo nuovo e avremo nuovi artisti e nuovi intellettuali. Diamo fiducia a chi racconta il mondo adesso. Oggi circola una poesia più diretta e meno cervellotica e una musica italiana legata ai luoghi invece che alla scena americana di quarta mano. Premiamo queste tendenze vitali.
Mi infastidisce la morte improvvisa, infatti mi auguro di potermi organizzare
C’è una follia che hai fatto nella vita?
Quella di aver dedicato tutta la mia vita alla poesia. Forse non mi hanno frenato abbastanza, tra amici e parenti. Un po’ me ne pento, avrei forse fatto meglio a uscire un po’ di più. Una dedizione assoluta, lo scrivere dalle 15 alle 20 ore al giorno. Infatti, quando guardo nel computer e vedo migliaia e migliaia di pagine mi rendo conto di aver comunicato all’esterno il 2% di quello che ho scritto. Mi fa un po’ rabbia. Ecco, una vera follia. Sono un folle per la dedizione alla poesia.
La più grande delusione e la più grande soddisfazione della sua vita?
Il poeta vive di delusioni. Ma non c’è un evento in particolare. Quando, dopo essermi candidato, non sono stato eletto sindaco, è stata una liberazione. La mia vita ne sarebbe stata compromessa. Candidarmi è stata una pazzia, fortunatamente il paese mi ha graziato. La soddisfazione direi il libro “Cedi la strada agli alberi”, che dopo anni e anni di poesie che scrivevo e non trovavano grandi ascolti, continua a girare e ad essere letto, sia da intellettuali che da gente semplice. Non mi ha cambiato la vita, però è stata una bella soddisfazione.
È appena uscito il libro "La cura dello sguardo". In cosa consiste?
È un libro che nasce dall'idea che la letteratura può avere una funzione consolante, più che consolatoria, che accogliere, fa diventare il proprio corpo un luogo accogliente, significa guarire. Esplora la mia ferita, che è anche di tante altre persone, ma nello stesso tempo è la cura. Penso che questo sia un tempo in cui stiamo morendo, ma anche guarendo. Il rimedio essenzialmente è la poesia, che non è solo fare versi. È un certo modo di guardare il mondo, di avere fiducia. Guardare è un gesto profondamente terapeutico. Le malattie entrano dagli occhi e possono uscire accogliendo il mondo nella casa del proprio corpo. Far diventare il proprio corpo un luogo accogliente significa guarire. Un corpo chiuso, poco percettivo, è un corpo che si ammala. Questo libera la gloria di federare le nostre ferite. Se nascondiamo la ferita diventa più profonda. Come dico in un mio verso: possiamo strofinare il buio per farne luce.
Fra i tuoi Appennini, mentre lavori alle poesie, hai mai pensato a come vorresti morire?
Sono ipocondriaco e ci penso settecento volte al giorno. Mi infastidisce la morte improvvisa, infatti mi auguro di potermi organizzare. Per esempio, dire a mio figlio cosa continuare a pubblicare di mio e come organizzare il funerale. Mi auguro di avere il tempo di pianificare il dopo. Mi sembra brutale morire mangiando una pizza. Però fortunatamente su questo non abbiamo nessun potere.