Pare confermato da Dagospia l’ingresso di Giampiero Mughini, l’11 settembre, nella casa del Grande Fratello Vip. In prima battuta, a firma Giuseppe Candela, si usava infatti il condizionale, sostituito in corso d’opera, nel titolo, con un definitivo “entrerà”. Dopo Aldo Busi e Fulvio Abbate ecco un altro scrittore a confrontarsi con il “mondo reale”. In America, un evento del genere, sarebbe destinato ad andare oltre gli irriflessi e stantìi e già sentiti: “È un esperimento sociale”, “ero curioso”, “da scrittore sentivo di fare questa esperienza”, “l’ho fatto per soldi, fatevi gli affari vostri”. Già nella metà degli anni Novanta, infatti, in un saggio pubblicato su “Harper’s”, Jonathan Franzen, anticipando il suo “Le Correzioni”, affrontava il tema della funzione del “romanzo” e dello “scrittore” in un’epoca dove l’oggetto libro cominciava inesorabilmente a decadere (rileggendolo adesso ci si rende conto come la realtà abbia infine superato anche la più catastrofica delle previsioni apocalittiche). Il saggio conteneva in nuce una riflessione che lo scrittore ha affrontato nel corso degli anni seguenti e che sono stati raggruppati in “Come stare soli” (edito da Einaudi). Il saggio in cui è contenuta la frase che dà il titolo al libro si intitola “Il lettore in esilio” e parla di Franzen che getta via il suo televisore, un vecchio Triniton, perché gli toglie tempo alla lettura e, badate bene, Franzen non ce l’ha mica con programmi come il Grande Fratello, se la prende con David Letterman o con Jerry Sienfeld, una televisione capace di fare venire i brividi di esaltazione e autocompiacimento ai nostri letterati i più engagée; come insomma se uno scrittore se la prendesse con Fabio Fazio o con la serie Boris per dire che anche loro, con tutta la fuffa intellò, altro non sono che banale intrattenimento e distrazione e distruzione di massa e imbarbarimento del cervello pensante. Il che, a dirla tutta, sarebbe una posizione che io riconoscerei in Giampiero Mughini, che al contrario, invece di buttare la televisione, ci salta dentro.
E qui la prima domanda: se il mondo degli scrittori e dei lettori è un mondo in “esilio” con il quale bisogna imparare a convivere (una visione estrema e radicale, molto più vicina a un Fulvio Abbate che agli “amichettismi”), lo scrittore che entra nel televisore è in esilio da se stesso? Mughini al Grande Fratello è un esilio al quadrato? Oppure i due esilìi si compensano in negativo e si tratta di una rentrée nel mondo? Franzen era molto amico del compianto David Foster Wallace, e in questa serie di saggi si avvicina al radicalismo di DFW per il quale persino l’”impegno” era una forma di intrattenimento, in un circolo vizioso della parola che gli si incappiò intorno al collo facendolo penzolare nel patio di casa sua (oh David, se solo la tua passione per la matematica fosse virata verso i glaciali lidi della fisica teorica!). Franzen risolve infine il dilemma scaricando la letteratura dall’obbligo dell’impegno civile, teorizzando il fare letteratura come piacere in sé, una sorta di arte per l’arte (che era appunto ciò a cui DFW si ribellava puntando i piedi, ma non riuscendo a scorgere alternativa). In ogni caso il “mondo” di Franzen è un mondo solitario ed elitario: una scelta di vita anche abbastanza “debole” in confronto alla quale la scelta di Giampiero Mughini di buttarsi nel Grande Fratello ha la stessa dignità intellettuale. Ma è così?
Non c’è nessuna differenza tra “letteratura” e “storytelling” televisivo? Mettiamola così: fino a quando gli scrittori che – anche giustamente – vogliono sporcarsi le mani con i “morti di fama” (Dago docet) no, non ci sarà nessuna differenza tra coloro che vogliono diventare popolari esibendo snobismo elitario e tra coloro che vogliono diventare popolari (a meno che lo neghino, ma sarebbe una bugia) partecipando a un reality. Perché la faccenda possa generare una qualche forma di dibattito interessante, bè, innanzitutto non fate entrare solo uno scrittore: invitate Chiara Gamberale, Chiara Valerio, Teresa Ciabatti, a fare “dissing” sulla letteratura con Mughini (il dissing funziona se ci sono due che parlano lo stesso linguaggio). Io per me andrei oltre, ci vorrebbe un Carlo Rovelli, un Geminello Alvi, un Paolo Zellini, a testimoniare cosa è la letteratura, oggi (leggete Alessandro Baricco e il suo “La via della narrazione” (edito da Feltrinelli), acciocché un dibattito sulla solitudine e sull’esilio degli intellettuali abbia un senso. Altrimenti è una trasmissione come un’altra e tentare di nobilitarla con la presenza di uno scrittore è una truffa