“A 24 anni presentavo già “Striscia la notizia”, e in carriera ho visto di tutto. Talenti grandiosi spegnersi improvvisamente, intuizioni così così prendere generosamente il volo”. Parole di un Gianni Fantoni che vaga acutamente tra ironia, analisi e ricordi. Oggi lo ritroviamo a teatro. A offrire, a un nuovo e vecchio pubblico, il prostrarsi del ragionier Ugo Fantozzi, il cittadino sottomesso al potere tronfio, talvolta ignorante, sempre inflessibile. Va ripassato Fantozzi. Perché se il lettore è un boomer dalla malinconia facile e dalle ancor più facili frequentazioni di gruppi social con titoli in stile “Noi che negli anni ’70 e ’80”, Fantozzi non ha bisogno di presentazioni. Ma se chi legge è un giovane millennial o addirittura un Gen-Z, ecco che la creatura di Paolo Villaggio potrebbe necessitare di una provvidenziale tirata a lucido. A questo ci ha pensato un calibrato e ispirato Gianni Fantoni, da poco in teatro con “Fantozzi. Una tragedia”, uno spettacolo con la regia di Davide Livermore (fino all’11 febbraio al Teatro Ivo Chiesa di Genova, poi Bologna e Milano – fino al 14 aprile –, ma ci sono altre date in via di definizione). E da poco in libreria con “Operazione Fantozzi” (Sagoma Editore).
Qual è la necessità e l’attualità, oggi, di una figura come quella di Fantozzi?
Fantozzi è ancora molto radicato nella cultura italiana, sarebbe un peccato non sfruttarlo a teatro. Mi riferisco al primo Fantozzi, quello più tragico. Sarebbe come smettere di fare Arlecchino perché tanto l’epoca non è la stessa. Fantozzi è un archetipo, sebbene quel tipo di impiegato non esista più. Ciò che però è ancora valida è questa figura sottomessa e oppressa, bombardata dalle sfighe, che alla fine sopravvive sempre. La blatta umana che ce la fa nonostante la bomba atomica.
Gira però, da anni, il paradosso per cui, trapiantato nel mondo di oggi, Fantozzi spiccherebbe addirittura come un privilegiato.
Ma sì, aveva una casa di proprietà, un lavoro che gli avrebbe dato una pensione, il posto fisso, una famiglia. Da questo punto di vista la nostra società si è trasformata e si sta costantemente trasformando. A partire dall’inizio di questo secolo il mondo è cambiato, è cresciuta la sensazione – ben più che una percezione – che siamo stati fregati. Fantozzi viveva in un mondo pre-Internet, quasi rionale. Ci facevamo gli affari nostri e stop, tutto era scollegato. Anche i comici potevano dire più o meno quello che volevano, non c’era qualcuno che dal pubblico, immediatamente, scattava in piedi e protestava. Internet ci ha dato molte libertà, ma ci ha confinati in un bigottismo social orrendo. Quando uno fa una battuta riuscita, il responso è: “definitiva”, “sei un genio”. Ma chi lo decide che sei un genio?
L’utente medio di Facebook.
Eh… Siamo in piena schizofrenia. C’è un rischio dietro ogni battuta. Fai una battuta un po’ forte e vieni tacciato di omotransfobia, allo stesso tempo c’è un OnlyFans – che va bene a tutti, su cui nessuno obbietta nulla – che “fa contenuti” attraverso una prostituzione dilagante. Ci sono le ragazzine col cu*o di fuori, su Instagram, però se fai una battuta adulta per adulti, qualcuno subito si indigna. Ho divagato, ma l’oscurantismo che ci avvolge è dilagante.
Un oscurantismo che ha finito per farci rivalutare il ruolo sociale del vecchio Fantozzi.
Non è questione di complottismo o antieuropeismo, però viene spontaneo chiedersi: ma se avessimo ragione ad essere incaz*ati per come ci hanno trattati e siamo finiti? Se avessimo ragione ad avercela con l’euro? Il dubbio, alla Fantozzi, ce l’ho. Il dubbio di essere stato leggerissimamente preso per il cu*o.
E perché non è venuto spontaneo alla Gen-Z cercare di crearsi un Fantozzi del proprio tempo? Come forma di critica a un’epoca tutt’altro che facile e privilegiata.
Perché i social hanno anestetizzato tutto. Con i social ti sfoghi, ma poi finisce lì, vince solo Mark Zuckerberg. Tu, da incaz*ato, hai sublimato con un commento crudo, ma poi la cosa si chiude subito lì. Ti piace un attore? Metti un like, ma poi non vai al cinema. Ti piace un comico? Ti accontenti degli spezzoni di YouTube, non lo cerchi a teatro. È la differenza tra spigolare e conoscere.
Un dramma. Come è dramma il tuo Fantozzi.
Che è comico, certamente, ma anche drammatico. Spiazzo il pubblico con una tragedia vera. Uno spettacolo che per me è un sogno divenuto realtà. Per tutta la vita ho voluto fare Fantozzi.
Paolo Villaggio ti ha ceduto i diritti, un autentico passaggio di testimone.
Sì, e li ho pagati cari, per questo adesso sono senza un rene (ride, nda). Nel libro racconto proprio la trattativa, di circa un anno e mezzo, con Villaggio. Il contratto che abbiamo stipulato. Che prevede una clausola ben chiara per la quale solo io posso interpretare Fantozzi a teatro. Un’interpretazione (tridimensionale), non un’imitazione (bidimensionale).
La comicità in tv sembra sempre più imitazione. Imitazione dell’imitazione, talvolta.
Ce n’è meno di prima. Ed è peggiorata. Reality e talent hanno fagocitato gran parte dei palinsesti. Più canali, più piattaforme, hanno fatto sì che si abbassasse il tetto pubblicitario a disposizione delle tv principali. Meno soldi, meno programmi validi, perché gli artisti veri costano. La tv ha così deciso di compensare con le facce da reality, costruendosi in casa dei personaggi televisivi a costo zero o quasi. Li sfrutta un anno e poi riparte con una nuova infornata. E poi è sparita la seconda serata, in questo modo si risparmia sulle produzioni. I laboratori comici della seconda serata hanno sofferto tremendamente, in quell’ottica.
Si pesca dal web.
Ma con rare fortune. Sono mondi separati. In genere chi funziona sul web fallisce in tv. “I soliti idioti”, in questo senso, hanno illuso. Erano usciti su Mtv, ma non avevano fatto granché. Poi le clip sono rimbalzate su YouTube e hanno spaccato tutto, ma loro non nascono sul web, sono stati “rimbalzati sul web”. Una cosa simile è accaduta con Checco Zalone. Se nasci sul web e tenti il salto di specie, funziona una volta ogni mille, come azzeccare il numero fisso alla roulette.
Non resta che affidarci alla stand-up?
Ma c’è sempre stata, anche da noi. Non è una novità. Dicono: “La stand-up è completamente diversa dal cabaret”. Mica vero. Al massimo puoi dire che uno che fa stand-up all’americana è più feroce o politicizzato, ma i monologhi da noi li faceva già Pino Caruso. Oggi ci provano in tanti. Alcuni sono bravini, ma altri vanno sul palco a bestemmiare e poco più. Il turpiloquio deve avere un senso, se è gratuito serve a nulla. Ma sulla comicità bisognerebbe organizzare intere giornate, tipo la Giornata del Fai. Andrebbe analizzata meglio. La stand-up, poi, andrebbe sempre fruita dal vivo, in tv funziona meno. Se non capti l’energia della serata ti perdi via un bel pezzo. A meno che sul palco non ci sia un Ricky Gervais (nonostante l’ultimo spettacolo sia stato molto deludente). Sulla comicità diceva bene Groucho Marx…
Ossia?
Diceva che è facile far ridere con una parolaccia, ma per far ridere senza ci vuole per forza un comico.
Un comico come Andrea Pucci, fresco di Ambrogino d’oro?
Mi stai registrando, non dico niente. Dico solo che l’Ambrogino d’oro risente delle intemperie, adesso è placcato oro. Ora Pucci verrà sotto casa mia per spaccarmi la faccia, lo so – il ragazzo perde le staffe facilmente –, ma io l’ho visto nascere durante un’edizione di “La sai l’ultima?”. Fu Pippo Franco a soprannominarlo Pucci, per la sua estrema milanesità. Ho visto anche Enrico Brignano fare la stessa trafila. Era debordante, raccontava le barzellette anche prima di registrare la puntata. Adesso fa degli spettacoli di tre ore. C’è gente, fra il pubblico, che viene salvata dalla Protezione civile. Comunque sappi che se scrivi queste cose dirò che hai manipolato la mia voce con la IA (sorride, nda). Brignano, a parte gli scherzi, è il migliore.
Allora usciamo dal ginepraio. Sei anche un grande appassionato di MotoGp, vero?
Certo. Seguivo Valentino Rossi ai tempi d’oro, quando ci faceva saltare sul divano. E adesso sta per iniziare un campionato mostruoso. Da anni ho mollato la Ferrari, ma al MotoGp non rinuncio.