Ah, Heil Hitler. O, per meglio dire, Hai Hitler. La differenza, la minima alterazione fonetica, è già il punto di partenza per la nostra indagine, no? Kanye West, o meglio Ye, il nostro represso desiderio Lacaniano, ci getta addosso questa provocazione, questa scatologia verbale che è al tempo stesso un insulto e una domanda: una nuova canzone, rimossa da ogni piattaforma, che giace con un unico video su YouTube con dei ragazzi afro-discendenti vestiti da animali che inneggiano al Führer, alla volontà di vedere la propria donna con altri uomini, all'ossessione per i tribunali che tolgono i figli ai padri. Iniziamo con l'ovvio, l'assurdità lampante: Kanye West non è un nazista. Dico, davvero? Dobbiamo discutere questa banalità? Si, viste le reazioni della società intorno a lui: a cui comunque consiglierei di leggere i commenti sotto il video di YouTube per capire come funziona il mondo reale. Se lo fosse, se credesse realmente nella purezza della razza ariana (ricordo timidamente che Ye è “black”), nel genocidio come soluzione finale, allora il suo “Hai Hitler” sarebbe una dichiarazione di intenti, una pericolosa incitazione e non dovremmo rimuovergli le canzoni, ma arrestarlo immediatamente. Il punto è proprio questo: non lo è. Ed è proprio questa ovvietà della non-credenza in ciò che fa che rende la sua mossa così intrinsecamente zizekiana, così profondamente, nauseantemente efficace. Non si tratta di una “performance art” nel senso bonario del termine, ma di un atto-limite, di una scissione che mette a nudo le nostre isterie “QUESTO NON SI PUO FARE”. West, con la sua finta ignoranza (è coltissimo), o forse, con la sua abile manipolazione dell'ignoranza altrui, ci spinge al limite. Ci costringe a confrontarci con l'indicibile, non per abbracciarlo, ma per vederlo riflesso nel nostro stesso orrore. E qui entriamo nel territorio di W.g. Sebald e della sua Storia naturale della distruzione. Sebald, con la sua prosa austera e la sua implacabile analisi, ci ha mostrato come la Germania post-bellica abbia rimosso il trauma dei bombardamenti, del proprio ruolo nella catastrofe, cercando di cancellare la memoria per sopravvivere. Ma il trauma rimosso non scompare; esso si manifesta altrove, in sintomi nevrotici, in un inconscio collettivo che continua a sanguinare o, peggio, in altre forme di nazismo da dialettica servo padrone (quando West ha fatto la bandiera di Israele con dentro la svastica ve lo ricordate? Voi che oggi dite che a Gaza c'è il genocidio?). La stessa cosa, in un certo senso, accade con il nazismo. Essere anti-nazisti, davvero anti-nazisti, non significa semplicemente dire “mai più” e rimuovere ogni immagine, ogni simbolo, ogni parola legata a quell'orrore. Significa, piuttosto, attraversare il trauma, confrontarsi con la sua abiezione, essere in grado di giocare con esso, di decostruirlo, di privarlo del suo potere sacrale e demoniaco. Non si può sconfiggere un fantasma semplicemente chiudendo gli occhi. Bisogna guardarlo in faccia, magari anche deriderlo, per dimostrare che il suo potere risiede nella nostra paura, nella nostra incapacità di maneggiarlo senza isteria. West, con la sua volgarità senza pari, ci offre un laboratorio di questa capacità: getta il fante nel fango, e ci osserva mentre ci indigniamo, ma nel contempo, ci costringe a guardare. Dobbiamo davvero dirlo che il nazismo fa schifo e speriamo non torni mai più? Ma se oggi però vediamo Putin e non capiamo che Hitler era visto esattamente così al suo tempo, dove pensiamo di andare?

E qui arriviamo al fallimento spettacolare della “cancel culture”. La cultura della cancellazione, con la sua furia iconoclasta, con la sua pretesa di purificare il discorso, di eliminare il "male" con la rimozione, si rivela non solo impotente ma addirittura controproducente. Più si cerca di cancellare Kanye, più egli diventa una sorta di martire dell'indicibile, una figura che incarna la resistenza, seppur grottesca, alla norma imposta. La sua provocazione, lungi dall'essere annullata, viene amplificata, trasformata in un grido di libertà per tutti coloro che si sentono soffocati dalla polizia del pensiero. Non sto sostenendo, ovviamente, che dovremmo abbracciare l'antisemitismo o qualsiasi forma di odio (lo ripeto, che qui ormai non si può stare tranquilli, a me tutto ciò che richiama l'odio fa schifo proprio). Ma sto affermando che la risposta all'odio non può essere la censura, la rimozione, la negazione dell'esistenza del “male”. Al contrario, abbiamo bisogno di capire. Di capire la logica perversa che genera certe affermazioni, di capire le reazioni che esse suscitano in noi, di capire il substrato di frustrazione e nichilismo che le rende possibili. West, con la sua disarmante, forse calcolata, idiozia, ci costringe a guardare le crepe nella nostra facciata di civiltà, le contraddizioni della nostra ipocrisia. Ci chiede: “Siete davvero così sicuri della vostra purezza? Della vostra distanza dall'orrore? O la vostra indignazione è solo un modo per rimuovere il vostro stesso fantasma?” “Siete sicuri che non canterete anche questa mia nuova canzone sotto la doccia?” E proprio ora, in questo preciso momento storico, mentre ci affanniamo a definire ciò che ci distingue dall'intelligenza artificiale, Kanye West ci offre una risposta sgradevole ma profonda. L'Ia, per sua natura, è programmata per essere corretta, logica, per aderire a parametri morali e sociali predefiniti. Non può essere intrinsecamente volgare, offensiva, o deliberatamente scorretta senza una programmazione esplicita in tal senso. E anche con tale programmazione, la sua “scorrettezza sarebbe simulata”, una performance fredda e calcolata, priva della carne e del sangue della vera trasgressione. Kanye, con i suoi paradossi sopra il limite, con la sua voluta violazione di ogni norma di buon senso e decenza, persino con le sue recenti magliette con le svastiche, ci mostra proprio questo: ciò che l'intelligenza artificiale non può fare. L'Ia non può navigare l'assurdo, non può abbracciare l'osceno per puro desiderio di provocazione, non può generare un “Hai Hitler” o stampare simboli nazisti su un capo d'abbigliamento che non siano semplicemente un errore di codice o una mera riproduzione. La sua “moralità” è un set di istruzioni; la nostra, per quanto traballante e ipocrita, è un campo di battaglia di desideri e pulsioni, di un inconscio che non può essere cancellato con un click. West, nel suo essere eccessivo, sconveniente, profondamente umano, ci sbatte in faccia la nostra natura. Una natura che, piaccia o meno, include la capacità di essere spregevoli, di provocare disgusto, di giocare con il fuoco della storia e della morale. Non è un bel quadro, certo, ma è autentico. Recentemente Maurizio Ferraris ha detto che ciò che ci distingue dalla Ia è la “pelle”, come Pinocchio a cui mancava solo quello per essere umano. Io, timidamente, aggiungerei “le palle”: la capacità di scandalizzare, quella di cui parlava Pasolini. E qui c'è un punto fondamentale: non sono le macchine che ci somigliano, siamo noi che siamo diventati macchine con i nostri linguaggi da protocollo, col nostro politicamente corretto, con la nostra indignazione da presepe o i nostri messaggini tutti uguali su whatsapp. Dunque, per dire qualcosa che faccia capire che Ye, come ogni grande artista, non è niente di più che una metafora. E forse, proprio nel tentativo di capire la logica dietro le sue follie, capiamo meglio noi stessi, e la nostra irriducibile, e talvolta orribile, umanità.
