Luigi Baldelli, cordialmente, di cose da raccontare ne ha. Non è in Ucraina in questi giorni di guerra – è a casa sua, in Campania –, ma sa benissimo cosa vuol dire raccontare la morte, il dramma, la miseria. In altre parole, la storia. Tipo l’Afghanistan nel 1993, quando “c’erano pochissimi giornalisti”, o la guerra dei Paesi balcanici, sempre in quel periodo. E quasi sempre al fianco di Ettore Mo, antidiluviana firma del Corriere della Sera. Baldelli è uno di quelli che, di lezioni di fotogiornalismo, ne può tirare fuori e come, ed è per questo che gli chiediamo che cosa ne pensa non tanto della guerra in Ucraina, definitivamente pezzo di storia contemporanea e già ribattezzata TikTok war, ma del modo di raccontare questo conflitto.
Allora Luigi, non sei là, ma di esperienza nella narrazione di eventi storici ne hai. Innanzitutto come ci si prepara metodicamente a questo tipo di lavoro? Cosa fai quando devi seguire un evento del genere?
Io non sono mai andato in Ucraina, nemmeno quando c’era la guerra del Donbass (2014, ndr), quindi non conosco la situazione politica. Però la modalità di lavoro credo sia la stessa per tutti i tipi di eventi, ed è quella che mi hanno insegnato. Studiare molto, leggere tantissimo, sapere dove uno deve andare, sapere come muoversi. Studiare molto bene il Paese, la situazione politica in special modo, così che poi non ti ritrovi spaesato e, fidati, che succede spesso.
C’è da dire che, nella disgrazia, per chi fa il mestiere del giornalista o del fotografo la guerra è comunque un’opportunità…
Purtroppo queste guerre in un certo senso sì: sono come il miele per le api. Da una parte è anche logico perché l’attualità, le news sono tutte sull’Ucraina. Chi fa fotogiornalismo cerca di stare il più possibile nella notizia. Però purtroppo ci sono persone che vanno un po’ là all’arrembaggio, almeno da quello che ho saputo. Non so quanti fotografi ci siano là, sicuramente saranno tantissimi, ma non ma non so siano tutti preparati. Ad esempio, ci sono dei colleghi che conosco che seguono l’Ucraina dai tempi della guerra del Donbass, ma poi sono rimasti lì anche gli anni successivi, durante la cosiddetta “guerra a bassa intensità”, a raccontare non solo il conflitto, ma anche la parte sociale. I grandi giornalisti con cui ho lavorato mi hanno detto che quando c’è una guerra è tutto davanti a te, tu non devi fare niente. Gioia, dolore, pianto, le storie, sono tutte lì davanti. Il problema è come raccontarle.
Raccontare una guerra è diverso da una manifestazione in piazza, dove per un influencer è più facile muoversi. Magari, per un fotografo, in guerra c’è un ambiente completamente diverso e dimostra di avere più dimestichezza nel saper costruire una narrazione. In questo senso come reputi il rapporto odierno fra creator, influencer e fotoreporter?
Esatto, c’è una gran differenza fra chi è un professionista e chi è un improvvisato. Adesso, secondo me, per fare questo lavoro spendi molto meno rispetto ad anni fa. La macchina fotografica oggi la sanno utilizzare tutti. Certo la tecnica è importante, ma non è fondamentale, quindi oggi fare una foto è più semplice. L’editoria non gode di ottima salute e questo lo sappiamo, ma il fotogiornalismo non è morto, tutt’altro: è vivo eccome. Infatti vedo molta gente che va in Ucraina a cercare il colpaccio. Vado là, faccio la foto, partecipo ai concorsi e vinco. Ma credo che così, secondo il mio parere, venga meno un po’ l’etica. Il giornalista non deve mai essere protagonista della storia, non si può mettere la storia in secondo piano. Lei deve essere sempre in evidenza.
Insomma si cerca un po’ di fare carriera anche così…
Bisogna sottolineare una grande differenza e un importante "concorrente" rispetto a prima: i social. Magari un collega che sta seguendo la storia, si trova foto dello stesso argomento sui social, foto realizzate o da altri colleghi che le pubblicano per promuovere il loro articolo o realizzate dalla stessa popolazione. Perché oggi tutti hanno un cellulare e mettono online video e foto. Sai ci sono gli scatti di un fotografo greco di France Press che sta facendo un ottimo lavoro, un bellissimo racconto, che sono bellissime. Però ecco, le foto che vedo arrivare da Leopoli, delle persone in treno, sono tutte uguali. O meglio, non sono niente di straordinario a livello visivo. Si parla di quattromila morti: ma quante foto di morti abbiamo visto? A parte la foto di un padre che piangeva su una barella macchiata di sangue, non ho visto la narrazione della morte. Purtroppo credo che il problema sia della censura che non permette di pubblicare certe cose. Poi ti dico: massimo rispetto per i colleghi che sono lì e si stanno facendo veramente il culo. Sarà interessante anche raccontare quello che verrà dopo la fase della guerra.
Secondo te adesso che la guerra si trova in Europa pensi ci sia paura da parte degli addetti ai lavori?
No, non credo che ci sia un problema di paura. Sei tutelato e protetto, o almeno molto più tutelato in Ucraina che in Siria. Ho visto molta più paura quando il 15 agosto scorso i talebani hanno preso Kabul e i giornalisti italiani sono andati via. Ma come? Tutti vorrebbero andare lì e voi andate? Pensa che Andrea Nicastro (inviato del Corriere della Sera, ndr) è rimasto a Mariupol finché ha potuto, seguendo tutti gli aggiornamenti, ed è andato via solo quando lo hanno forzato. Come dicevamo prima c’è un’attenzione forte in questo momento per l’Ucraina da parte dell’Onu, dell’Unione Europea, quindi sei abbastanza protetto. Solo mi domando che cosa puoi fare visto che con il coprifuoco e le regole che ci sono non puoi andare in giro. Vedo che le storie si ripetono un po’.
Fra le tante storie che hai seguito, c’è qualcosa che si avvicina a questo tipo di conflitto?
Ho avuto la fortuna di lavorare con Ettore Mo, che è stato il mio cicerone e maestro per tantissimi anni. Insieme abbiamo lavorato in Afghanistan quando c’erano pochissimi giornalisti e anche lì abbiamo visto la miseria della guerra. Ma il dolore della guerra è uguale ovunque.
Solo che in Afghanistan non c’erano i social…
Certo. Quando sono andato là nel 1995, prima della caduta di Kabul, eravamo 4 giornalisti. Poi dopo le Torri gemelle c’è stato il botto. C’erano centinaia di giornalisti, la CNN si era presa un palazzo intero. Forse, la situazione più simile all’Ucraina che ho visto è Sarajevo e la guerra in Bosnia. Una città sotto assedio per tanto tempo, la gente che se ne andava e rimanevano solo uomini a combattere, inverni freddi. Però non c’erano bombardamenti come stanno accadendo in Ucraina, solo i mortai.