Vengo da un posto il cui dialetto, in realtà vero e proprio vernacolo, è a appannaggio di un numero ristretto di persone, essendo questo posto una città di provincia con circa centomila abitanti. Anzi, vengo da un posto il cui dialetto, in realtà vernacolo, è a appannaggio di pochissime persone, forse quasi più nessuno, dal momento che le nuove generazioni non lo praticano per nulla, limitandosi a adottare, involontariamente, la cadenza locale, e che buona parte di coloro che lo praticavano sta lasciando questo mondo, sempre che non lo abbia già fatto. Considerando anche qualche migliaio di persone che provengono da fuori, intendendo con ciò altri posti, anche della medesima regione, dove però si parlano dialetti completamente diversi, il fatto che chi da fuori regione provi a imitare la mia parlata finisca sempre per sconfinare in quella di altre province l’ho sempre trovata una bizzarria inspiegabile, perché, giuro, sono proprio lingue diversissime con origini diversissime, come anche da altre nazioni, specie quelle extracomunitarie che, negli ultimi anni, hanno in qualche modo fatto loro una porzione periferica della città, abbandonata dagli autoctoni al loro arrivo, popolo accogliente che non siamo altro, direi che se a stento c’è qualche sparata migliaia di persone che ancora parla il nostro dialetto, che poi sarebbe un vernacolo, è già tanto. E dire che abbiamo anche avuto uno scrittore, un poeta, che ha elevato quel nostro vernacolo a livelli altissimi, pubblicato da grandi editori nazionali e considerato, a ragione, uno dei più importanti poeti del Novecento, uno scrittore cui l’amministrazione cittadina, vedi tu l’essere profeti in patria, ha dedicato una orribile strada della zona industriale, piena di buche e senza numeri civici, dove si passa con la macchina, attenti a non incappare nella fotocamera dell’autovelox e a non lasciare la coppa dell’olio da qualche parte.
Comunque, vengo da un posto in cui il dialetto locale, in realtà vero e proprio vernacolo, come tutti i dialetti, immagino, tanto più i vernacoli, che sono vere e proprie lingue, utilizza espressioni, immagini, parole in grado di esprimere concetti, situazioni altrimenti non esprimibili in una singola parola. O almeno non in una parola italiana. Per dire, esiste un verbo, lappare, e di conseguenza una parola, lappa, che ha tutt’altro significato rispetto a quella italiana, seppur in qualche modo al termine utilizzato in zoologia, che fa riferimento al bere rumorosamente di certi animali potrebbe essere riconducibile. Lappare, infatti, nel dialetto del luogo da cui vengo, Ancona, nelle Marche, lo dico perché il fatto che spesso io mi ritrovi a spiegare a gente che è nata e vive altrove dove Ancona si trovi, capoluogo di regione, quindi in teoria studiata già alle elementari, mi fa intuire che in Italia la geografia sia andata perdendo appeal, lappare, dicevo, nel dialetto di Ancona significa attaccarsi alla lingua, e lo si dice di qualcosa di stopposo, difficile da mandar giù, quando si mangia. Ma lappare è anche il verbo che descrive quel che succede alla lingua quando manca la saliva, e si parla a fatica, mi si è lappata la lingua, appunto, l’azione che descrive questo determinato momento, spesso frutto di stress, emozioni forti, paura, imbarazzo, apprensione. Di conseguenza la lappa, che è qualcosa che ha a che fare con il lappare, è qualcosa di particolarmente pesante, lapposo, appunto. Qualcosa che ci ammorba, ci annoia, fatichiamo a sopportare ma non con dolore, intendiamoci, proprio perché non ha nulla di interessante, come quando ci capita di stare con qualcuno prolisso che non arriva mai al punto (esatto, come di chi per arrivare a una parola dialettale, lappa, ha scritto circa cinquecento parole senza mai arrivare al punto, si chiama mimesi). Quando quindi nella mia città natale, Ancona, si dice che qualcuno o qualcosa è una lappa lo si bolla in maniera definitiva, come fossimo alla cassazione. Domani ti va di uscire con Tizio? Mamma mia, è una lappa. Ti va di vedere quella serie tv? È una lappa.
Attenzione, non si parla di qualcosa che non ci piaccia, come, che so?, per me potrebbe essere il reggaeton, perché in quel caso il termine lappa sarebbe fuori posto, tutto si può dire fuorché il reggaeton sia lapposo, è semmai tamarro, volgare, brutto, lappa o lapposo è qualcosa che ci annoia, pesante, una lappa appunto, Franco Scataglini, il poeta di cui parlavo sopra, quello entrato nelle antologie nazionali e cui è stata dedicata una strada sbrecciata della Baraccola, la zona industriale di Ancona, non avrebbe saputo spiegarlo meglio, anche se sicuramente avrebbe usato meno parole. Vivo da ventisei anni a Milano, città nella quale mi sono trasferito per amore, e che poi è diventata la mia città anche per lavoro, e quando qualcuno, qualcuno di Milano o di un’altra parte di Milano mi dice che ho mantenuto la cadenza della mia città, magari senza conoscere esattamente la cadenza della mia città e identificandola con quella di un generico accento marchigiano, più spesso maceratese o fermano, provo un moto di sollievo, moto di sollievo che a volte si incrina quando, tornato nelle Marche, qualcuno si azzarda a dirmi che parlo milanese, perché come spesso capita agli esuli, il mio aver adottato Milano come città in cui lavorare è sì figlia del mio essermi trasferito qui per amore, ma anche del fatto che nella mia città nessuno o quasi ha mai provato a farmi tornare indietro, né ventisei anni fa né oggi, quando il mio know how e soprattutto la mia rubrica telefonica potrebbe essere preziosa per un posto il cui nome comunque contempla sempre una spiegazione tipo, un centinaio di chilometri più a sud di Rimini, no, non in Abruzzo, quella è Pescara, perché come spesso capita agli esuli il senso di appartenenza si fa radicale, quasi uno scudo dietro il quale nascondersi, poi è da capire se dai forestieri o proprio dai conterranei. A mia moglie, colei per seguire la quale mi sono appunto trasferito a Milano ventisei anni fa, non capita quasi mai che qualcuno le dica che ha mantenuto l’accento marchigiano, io stesso quando l’ho conosciuta, trentasette anni fa, le ho chiesto di dove fosse per quel suo parlare in una modalità che non associavo alla nostra città (lei in effetti ha la mamma abruzzese, forse questo ha influito sulla sua cadenza), così come non le capita che in Ancona, la mia città pretende l’in al posto dell’a, Dio ci liberi dalla d eufonica, credo per quel suo trovarsi nell’unica regione plurale d’Italia, in sarebbe un residuo di “nella Marca di Ancona”, a lei, comunque, non capita mai che qualcuno in Ancona le dica che parla milanese, cosmopolita ante litteram, apolide per natura, e un po’ anche per scelta. Non parla in dialetto, quindi, anche se in casa tendiamo a lasciarci andare a una lingua che è un po’ meno italiana dell’italiano che parliamo fuori, i verbi che perdono l’ultima sillaba, eredità dell’essere stati così tanti secoli sotto lo Stato Pontificio, quindi Roma, anda’ veni’, torna’, poche parole ancora conservate con cura, parole che in italiano funzionano diversamente e che, spesso, non trovano un corrispettivo. Capita, quindi, che quando io decida di ascoltare in auto qualcosa che sia particolarmente malinconico, io amo quasi sempre ascoltare in auto musica particolarmente malinconica, lenta, triste, lei, mia moglie, bolli la mia scelta con un “Togli ‘sta lappa”, frase di sole tre parole che non lascia però spazio a repliche, né a dibattito.
Al massimo, con spregio, può allargarsi a un “Cos’è ‘sta lappa?”, frase tranchant che di parole ne ha quattro, tranchant perché quasi sempre lei sa benissimo chi è il cantante e la cantante lapposa che vorrei ascoltare, e conosce anche nello specifico la canzone che le ispira questa terminologia. Il suo chiedere cos’è, quindi, va letta con tutta la carica di cinica spocchia che il bollare come lapposo qualcosa che sia frutto di un lavoro certosino, lavoro che parte indubbiamente da una ispirazione, che passa per l’applicare a quella ispirazione talento e mestiere, per finire poi nel giudizio spesso distratto della discografia, per le maglie strette e spesso ottuse del mercato, andando poi a incappare con la mia ritrosia a ascoltare musica che non sia stata concepita in un passato che poco o nulla ha a che vedere col presente, quindi lì, nel lettore cd della nostra auto, unico luogo, o quasi, dove la scelta della musica da ascoltare non è solo una faccenda mia privata, ma familiare. Poi vallo a spiegare agli altri che non sono io quello cattivo della nostra coppia, il viso sorridente, obiettivamente bello di mia moglie a nascondere una cattiveria nel giudizio che nel mio caso è spesso posa, un voler tenere in vita un personaggio, quello del critico outsider, che è più il frutto di un disegno, come quello che rendeva sensuale Jessica Rabbit, che di un essere in un determinato modo. Alla faccia che l’aspetto non conta, l’abito non fa il monaco e tutte quelle sciocchezze lì. Ultimo passaggio, poi arrivo al dunque, la lappa non è una semplice rottura di coglioni, o meglio, lo è, indubbiamente, ma con una sfumatura differente, meno violenta, anche gergalmente, e quindi più difficile da scansare, da evitare. Comunque, credo di aver reso a sufficienza il concetto di lapposo portandovi a spasso per un terreno fangoso, di quelli che ti si attacca al carrarmato delle scarpe, appesantendo le gambe, rendendo anche il solo fare un passo qualcosa di faticoso, quasi impresa eroica, arrivo al dunque, non prima di aver constato come lappa, in fondo, è esattamente il contrario di lippa, che in un dialetto che mi sfugge, l’ho appresa a Milano, come parola, nella frase “è veloce come una lippa”, ma a Milano ci vive gente arrivata da tutta Italia, vai a capire l’origine di questo idioma, lappa e lippa, sembra quasi il titolo di una filastrocca di Gianni Rodari. Ecco, ho sentito il monologo di Chiara Ferragni, la stucchevole lettera che ha scritto alla se stessa bambina, fatta di luoghi comuni e giocando su un woman empowerment che sta a lei quanto a me sta l’eleganza all’inglese, con tanto di lacrimucce e passaggi già pronti a diventare meme. Insomma, la solita lappa.